Per gli uomini d' Occidente la Sicilia è sempre stata terra prediletta
da Cerere, dea delle messi e del pane. Ad assegnarle questo blasone ha
contribuito decisamente il V libro delle Metamorfosi di Ovidio che
rilancia il mito greco del ratto di Persefone, figlia di Demetra e di Zeus, da
parte di Ade, dio degli abissi. Nel racconto ovidiano i personaggi hanno però
nomi latini: la fanciulla, rapita in riva al lago di Pergusa (Enna) mentre
raccoglieva «bianchi gigli e viole», diventa Prosperina; la madre Cerere; il
focoso rapitore Plutone. Non cambia invece la sostanza dei fatti narrati.
Prosperina viene trascinata a forza da Plutone nelle profondità del Tartaro.
Cerere, disperata, si mette a cercare dappertutto la figlia, senza che nessuno
sappia o voglia dirle dove si trova. Delusa degli uomini, indegni dei suoi doni,
l ' addolorata madre distrugge i campi di grano. Ad ovviare all'inconveniente
venuto a determinarsi per la grave decisione della Dea è alla fine Giove, il
quale stabilisce che Prosperina rimanga per metà dell ' anno insieme con il
marito negli abissi e per il resto con la madre sulla terra. E il grano torna a
crescere.
È chiaro che l ' assenza della fanciulla evochi — come la scomparsa di altri
eroi mitici — la vicenda del seme che ogni anno muore per rinascere puntualmente
a nuova vita, salvando l ' uomo dalla morte per fame. «Di questa concezione
ciclica della vita – osserva Antonino Buttitta, – il seme, e in tutte le società
arcaiche il grano in semi, era sentito come una metafora visibile e concreta. Da
un lato il suo aspetto inerte, la sua morte apparente, erano una denuncia
drammatica della vita vegetale; dall ' altra la potenza di vegetare racchiusa in
esso lo identificava come fonte di vita. Era il territorio di nessuno nella zona
di frontiera tra il vivere e il morire […] Nel processo di riconduzione dall '
invisibile al visibile, a un visibile tutto umano, l ' identificazione di questo
dramma in un dio antropomorficamente rappresentato è conseguenziale». Nel
momento più critico della vicenda della vegetazione, quando l ' arco del tempo
sembra chiudersi, «il dio creatore della vita e salvatore dalla morte, da Tammuz
a Cristo, doveva morire per poi rinascere. La sua morte e resurrezione erano,
infatti, la riprova del suo potere di convertire la morte in vita».1
Alla stessa concezione ciclica della vita, basata sul consumo del tempo e sulla
sua periodica rifondazione risponde il mito di Adone.2 In Sicilia
esso rivive attraverso i cosiddetti lavureddi , semi di grano
germogliati al buio assieme ad altri cereali, evocativi appunto degli antichi
«giardini di Adone». Compaiono nei «sepolcri» allestiti dentro le chiese il
Giovedì Santo, negli altari di S. Giuseppe il 19 marzo e, a termine delle
funzioni religiose in onore di S. Giovanni, nella festa del Muzzuni ,
il 24 giugno ad Alcara Li Fusi.3 «L ' esperienza agraria
resta fondamentale anche nella strutturazione dei fatti religiosi, presso
qualsiasi civiltà agricola»,4 a prescindere dalle specificità
geografiche e storiche. In proposito non dovrebbero esserci più dubbi, alla luce
degli studi di Mircea Eliade e di Vladimir Jarovevlic Propp.
Tuttavia, il radicamento nell ' Isola del culto di Cerere era
più forte che altrove, ove si consideri che già all ' indomani
della colonizzazione greca la gerarchia sacerdotale siciliana contestava la
supremazia del Tempio di Eleusi (che per i pagani era l '
equivalente di quello che sarebbe stata la Mecca per i musulmani) sostenendo che
«era in Sicilia che l ' uomo aveva ricevuto per la prima volta
il dono del grano e che fu ad Enna che Plutone rapì Persefone e la portò via con
sé».5 La popolarità della dea del pane era un omaggio profondamente
sentito alla Madre Terra, ma anche alla fertile terra di Sicilia dove il grano
cresceva meglio che in altre parti del mondo. Si spiega così il grande successo
che riscuoteva ogni anno l ' appuntamento primaverile delle
Tesmoforie, feste in onore di Demetra e di Persefone, nel corso delle quali
i Siciliani, oltre a piangere per l ' assenza della dea rapita,
offrivano a sua madre grossi canestri di mylloi , focacce con miele e
sesamo raffiguranti le pudende femminili. E accompagnavano le offerte con gesti
osceni e linguaggio licenzioso, allo scopo di far ridere la dea addolorata. Riti
del genere erano, ad onor del vero, conosciuti anche altrove. Suscitare il riso
equivaleva a far sorgere la vita, «la vita vegetale», per essere più precisi:
«per far crescere l ' erba e il grano bisognava far ridere la dea della
terra».6
Ma in Sicilia il culto di Demetra-Cerere non tramontò nemmeno dopo l'affermazione
della religione cristiana. E continua tuttora a vivere in certe tradizioni
rurali come la Sagra delle spighe7 che ogni anno si svolge a
Gangi (Palermo) nel mese d ' agosto e soprattutto nella Festa del
grano di Raddusa (Catania), le cui manifestazioni annoverano uno spettacolo
folklorico che va sotto il titolo di Ratto di Prosperpina . A giudicare
dall'apparato celebrativo della sagra gangitana non c ' è dubbio che si
tratti della reiterazione di un rito agrario.
Tradizioni analoghe sopravvivono nel sud del Lazio (Minturno,
Sezze Romano). Anzi la Sagra delle regne di Sezze (Latina) è quasi
identica alla festa gangitana, non foss ' altro perché vi compaiono,
con il loro caratteristico carico di covoni, le treglie , arcaici carri
senza ruote a trazione animale, adorni di festoni, «che sfilano in processione
fra canti e suoni per le vie del paese».8 Se proprio una differenza
si vuol trovare tra le due sagre bisogna cercarla nel nome dei carri che in
Sicilia si chiamano strauli. Il termine che indica il covone è invece
lo stesso: regna , anche se il suo plurale nel dialetto siciliano suona
regni, anziché regne.
Ma è proprio uguale il peso della tradizione cerealicola in Sicilia e nel
sud del Lazio? Francamente no. Il paragone non regge neanche con altre regioni d
' Europa. Solo la Sicilia poté, infatti, ispirare a Goethe un pensiero come
questo: «ci saremmo augurati il carro alato di Trittolemo, per sottrarci a tanta
monotonia» di campi coltivati a cereali.9 E non mancava certo di
perspicacia il grande poeta tedesco. Militare dell ' esercito prussiano, nel
1792 «osservò giustamente che il confine tra la Germania e la Francia era una
frontiera fra la segala e il frumento».10 Ma non gli passò nemmeno
per la testa di accennare, come aveva fatto cinque anni prima in Sicilia, a
Trittolemo, il discepolo di Demetra cui la dea delle messi aveva affidato l '
importante compito di girare il mondo su un carro trainato da draghi alati per
diffondere la coltivazione del grano.
E poi in quale altra parte del mondo si è mai visto un clero così tollerante
come quello catanese che, all ' indomani della carestia del 1756, si
dichiarò d ' accordo; «per il bene pubblico», con l '
aristocrazia terriera sulla necessità di commissionare allo scultore Giuseppe
Orlando una fontana con la statua della dea Cerere? Certo, forse pochi catanesi
sanno chi rappresenti la marmorea divinità: i più l ' hanno sempre
conosciuta come Tapallara , altri la chiamano Matapalla e,
anche se hanno studiato il latino, non si sforzano di tradurre l '
iscrizione con cui le si chiede di far «piovere ricchezza».11 Non c
' è dubbio, però, che dopo essersi fatta ammirare per anni nell '
attuale piazza Università, la dea che «un tempo dettò leggi e diede miti
alimenti alla terra», fa tuttora bella mostra di sé nella piazza Cavour della
Civita. Negli ultimi decenni del Settecento Cerere era ancora onorata, sia pure
inconsapevolmente, come dimostrano la bella incisione e la gustosa descrizione
fatta da Jean Houel a proposito di una festa campestre che l ' artista
ebbe modo di osservare durante il suo soggiorno catanese.
Nelle campagne che circondano la città, i contadini
celebrano, dopo la mietitura, una festa popolare, una specie di orgia, in
ringraziamento del buon raccolto fatto. Alcuni giovani, aprono la processione
con balli ed evoluzioni; li segue un uomo che batte un tamburo a cavalcioni di
un asino; cinque o sei altri, che montano anch ' essi questo pacifico animale,
vengono dietro impugnando lunghi bastoni ai quali sono attaccati fasci di grano.
In mezzo a loro un altro uomo, sulla stessa cavalcatura, porta un grande
stendardo che sventola maestosamente, mosso dal vento. Viene poi una giovane
donna vestita di bianco e seduta su un asino; la circondano molti uomini a piedi
che portano sulle teste e sulle braccia mannelli di grano che sembrano volerle
offrire in omaggio. Una moltitudine di contadini segue a frotte il corteo
suonando diversi strumenti.
La gente colta di Catania mi assicura che quest ' usanza è antichissima; l '
origine è ignota, ma non vi sono dubbi che si tratti di un ricordo delle antiche
feste di Cerere e che la giovane donna raffiguri questa dea, alla quale i
contadini offrivano le messi che credevano di aver ricevuto dalla sua generosità
[…] 12
Un secolo dopo, commentando a caldo la rivolta dei Fasci dei lavoratori, una
dispensa pubblicata a Roma riprodusse una descrizione della Sicilia fatta nel
1876 dal geografo francese Elisée Reclus (1830-1905):
Si sa che la Sicilia fu in antico la predilezione di
Cerere: è là, nella pianura di Catania, che la buona Dea insegnò agli uomini l
' arte di arare il suolo, di spandervi i semi, di tagliare le messi. I
siciliani non hanno dimenticato le lezioni di Demeter, poiché il suolo dell
' isola per più che la metà è coltivato a cereali, ma convien dire che non
han guari migliorato il sistema di coltura dalla Dea insegnato in epoche
favolose. Ché, anzi, è loro presso a poco impossibile, di far meglio che i loro
antenati, poiché in virtù del loro contratto col nobile proprietario, erede del
feudatario normanno, i coltivatori sono nell ' obbligo di eseguire l
' antica routine dei lavori. Quasi tutti i loro strumenti sono
di forma primitiva, i concimi son poco adoperati, e dopo che il seme è nella
terra, il contadino lascia la cura del campo alla buona natura.
Quando percorrensi le campagne della Sicilia, si resta attoniti dalla mancanza
assoluta di case. Non v ' han villaggi, ma solamente a grandi distanze le une
dalle altre, delle città popolate. Tutti gli agricoltori sono dei contadini che
rientrano ogni sera, al modo antico, nel recinto della città. Ve n ' han di
quelli che son costretti di fare quotidianamente un doppio tragitto di dieci
chilometri e anche di più, per recarsi a vedere il loro campo e tornarsene a
casa. Solo, talvolta, loro avviene di risparmiarsi la corsa del ritorno:
passando la notte in qualche caverna, od in un fosso coperto di fronde. Durante
la messe e le vendemmie, delle tettoie improvvisate servono ad ospitare i
lavoratori.
I vasti campi dei cereali che riempiono le valli e coprono le pendici vanno
debitori a quest ' assenza d ' abitazioni umane di un carattere tutto speciale
di tristezza e di solennità.
Direbbesi una terra abbandonata e chiedesi per chi quelle spighe maturino.13
C ' è in questa descrizione del «principe dei moderni geografi», una
grande consapevolezza del male antico che affliggeva la Sicilia del latifondo e
del grano e che, proprio in quegli anni, veniva portato alla ribalta della
storia dall 'Inchiesta agraria governativa condotta dal siciliano Abele
Damiani e da quella privata dei toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Ma
le denunce non bastarono ad estirpare il cancro del latifondo ex feudale.
Bisognava aspettare la metà del secolo successivo perché si aprissero nuovi
orizzonti alle campagne siciliane.
* * *
Se è vero che per molti secoli la coltivazione del grano ha costituito la
principale ricchezza della Sicilia, è forse utile tentare di risalire alle sue
origini. Senza avventurarsi nei secoli bui della preistoria, si può convenire
con Orazio Cancila che il prezioso cereale fu forse introdotto nell ' Isola
«assieme alla vite dai Fenici, che lo portarono dalla Palestina tra l ' XI e il
IX secolo a.C.».14
All ' inizio le rese dovevano essere abbastanza buone, perché la terra non
era ancora sfruttata. Plinio favoleggia che nell ' agro di Lentini i terreni
rendessero addirittura cento volte il seme messo a dimora. Teofrasto parla del
trenta per uno relativamente ai dintorni di Milazzo. Ma più verosimili sembrano
le informazioni di Cicerone, il quale «indica una resa massima del dieci».
Comunque sia, non c ' è dubbio che l ' Isola presentasse una grande vocazione
cerealicola che fu poi rilanciata dai dominatori greci e romani.
«Oltre a rifornire la Grecia e le città dell ' Africa, la Sicilia, già
secoli prima di esser conquistata militarmente, in anni di carestia inviava
grano anche a Roma. Sotto Gerone II (269-215 a.C.) — che dotò la sua città di
granai che ricordano i moderni silos — Siracusa inviava grano a Rodi, a
Cartagine, ad Alessandria e soprattutto a Roma, che cominciava già a essere il
principale mercato di esportazione».15 Un altro cereale largamente
coltivato fin dall ' inizio dell ' avventura cerealicola era l
' orzo, che però veniva in gran parte consumato in loco. La proprietà
della terra era soggetta alla decima , ossia al pagamento di un canone
pari, appunto, alla decima parte del prodotto, in favore delle città-stato. Ad
introdurre questo tributo, secondo la più accreditata storiografia, fu Gerone II
di Siracusa. Circa le varietà di grano coltivate nella Sicilia ellenica sappiamo
per certo che c ' era il trimenaios dei Greci, la ben nota
tumminìa , grano marzuolo, che tuttora si coltiva in piccole estensioni in
qualche plaga dell ' Isola.
Sottoposta a Roma, la Sicilia fu di fatto condannata alla monocoltura
cerealicola e divenne il «granaio del popolo romano».16 La decima
hieronica fu estesa all ' intera isola e, accanto ad essa
ne fu istituita una straordinaria che in realtà non era un tributo, ma la
vendita della decima parte del raccolto al prezzo stabilito unilateralmente dal
senato romano. Si trattava, tuttavia, di un diritto che Roma esercitava solo in
casi eccezionali. Incaricati della riscossione della decima erano i decumani
, appaltatori romani e siciliani, «i quali scaricavano i rischi di un
cattivo raccolto sui contribuenti, cioè sugli aratores del territorio
soggetti alla decima».17 Alcune città siciliane erano esonerate dalla
corresponsione della decima ordinaria, ma non certo dalla vendita forzosa della
decima parte del prodotto, qualora il senato ne avesse decretato la necessità.
In queste condizioni si trovavano le città alleate (Messina, Taormina e
Noto) e le città libere e immuni , cui era riconosciuto anche il
diritto di proprietà della terra (Palermo, Centuripe, Alesa, Segesta e Alicia).
C ' erano però anche alcune città decumane (Agrigento,
Eraclea, Enna, Gangi, Cefalù, Termini, ecc.) che, pur essendo proprietarie,
erano soggette alla decima ordinaria, e le città censorie (Siracusa,
Milazzo, Trapani, Marsala) che erano escluse da ogni privilegio essendo stato il
loro territorio trasformato in ager pubblicus , proprietà del popolo
romano, che veniva di solito ceduto ai cittadini dell ' Urbe. L '
affitto dell 'ager pubblicus ai privati aratores (in gran
parte di Centuripe) e i privilegi accordati ai cavalieri romani favorirono la
concentrazione del possesso della terra in poche mani e la conseguente scomparsa
dei piccoli coltivatori. I latifondi, condotti con manodopera servile,
continuarono tuttavia a produrre grano in funzione delle esigenze dell '
Urbe e orzo per il fabbisogno alimentare dei Siciliani. Intanto i
governatori e i burocrati inviati in Sicilia da Roma si rendevano responsabili
di grossi latrocini come quelli denunciati da Cicerone nei confronti di Verre.
«Il passaggio dalla dominazione romana a quella gotica non ebbe significativi
effetti sui rapporti di proprietà, anche se i Goti concessero qualche massa
ai loro amici e terre incolte da dissodare ai coltivatori. L '
agricoltura rifiorì e Jordanes poté chiamare la Sicilia “nutrice dei Goti”,
perché con il suo grano approvvigionava l ' Italia. Altro grano veniva
esportato contemporaneamente in Gallia. Qualche anno dopo, il grano siciliano
servì al generale bizantino Belisario per la sua spedizione in Africa contro i
Vandali e successivamente alimentò le truppe che combattevano i Goti nella
penisola e che spesso, assediate, riuscivano a resistere grazie ai rifornimenti
granari inviati dalla Sicilia».18
Dopo la conquista bizantina (553) la Sicilia divenne provincia dell ' Impero
Romano d ' Oriente. Furono estromessi dai latifondi i nobili romani e si
formarono nuovi grossi proprietari terrieri locali. Buona parte delle terre
passarono in mano al papato che però fu espropriato dall ' imperatore nel 733,
perché il pontefice non aveva approvato la politica imperiale contro il culto
delle sacre immagini. Il patrimonio confiscato fu in parte distribuito ai
soldati. Il che finì per promuovere la formazione di una discreta rete di
piccole aziende, che producevano grano in condizioni di svantaggio rispetto ai
latifondisti che si reggevano grazie al lavoro dei servi della gleba. Gli Arabi
diversificarono il panorama produttivo grazie all ' introduzione di nuove
colture e favorirono il ripopolamento delle campagne, senza tuttavia modificare
il paesaggio cerealicolo della Sicilia interna.
I Normanni istituirono il feudalesimo che finì per allargare notevolmente l
' area del latifondo nobiliare favorendo anche la formazione di grosse
aziende cerealicole facenti capo alla Chiesa. Federico II, che pure contrastò lo
strapotere della nobiltà, si rese responsabile della distruzione del villanaggio
arabo, contribuendo così a ripristinare il sostanziale assetto monocolturale
dell ' Isola. Dopo la lunga guerra del Vespro, che distrusse l '
economia isolana, il sistema feudale e la produzione cerealicola furono
rilanciati dagli Aragonesi. Non furono poi da meno gli Spagnoli.19
Sotto l ' amministrazione aragonese, il grano siciliano cominciò ad
essere esportato in grossi quantitativi in Spagna, con un sistema fiscale che
consentiva scandalose esenzioni a favore dei latifondisti vicini alla corona,
come il conte di Modica che fu autorizzato ad esportare in franchigia ogni anno
ben 12 mila salme di granaglie.20 Furono potenziati i pubblici granai
annessi ai porti ( caricatori ), controllati da un funzionario regio (
maestro portulano ), il quale rilasciava le licenze d '
esportazione annotando il costo nel certificato liberatorio, detto tratta.21
Ciò finì per richiamare nell ' Isola numerosi mercanti catalani,
biscaglini, genovesi, pisani, alcuni dei quali divennero poi grossi proprietari
terrieri, funzionari regi, e acquisirono persino titoli nobiliari.22
Insomma, «l'invadente coltura del grano» fece della Sicilia «almeno
fino al 1590, e anche dopo, il Canada o l ' Argentina dei mondi
occidentali del Mare Interno».23
Oltre a dare un ulteriore impulso alla cerealicoltura, Carlo V istituì la
panificazione a prezzi politici ( pubblico panizzo ) e la cosiddetta
colonna frumentaria , alimentata dall ' ammasso obbligatorio
di un terzo della produzione granaria. Suo figlio, Filippo II, proseguì la
tradizionale politica d ' accaparramento del grano siciliano (anche per
sostenere gli impegni bellici della Spagna), aumentò il dazio sulle esportazioni
e istituì, nel 1564, la tassa sul macinato che «doveva dimostrarsi nei
successivi tre secoli un grave peso sull ' agricoltura e sul tenore di
vita».24 Ma s ' intestò anche una campagna di colonizzazione
interna della Sicilia, finalizzata all ' incremento della
cerealicoltura, che vide sorgere, anche per l ' impegno dei suoi
successori e dei viceré residenti a Palermo, più di cento nuovi centri feudali,
alcuni dei quali divennero nel volger di pochi decenni città.25
Il Seicento fu duramente segnato da epidemie, tra cui la peste, e da
ricorrenti carestie cui si aggiungevano speculazioni di ogni tipo e artificiose
variazioni del prezzo del grano: «gli frumentarij — si legge in una cronaca dell
' epoca — non curandosi di venderlo d ' alto
prezzo, lo nascosero per volerne prezzo altissimo. Quando più si facevano
inquisitioni dagli Regii Patrimoniali (perché essi pure sono fromentarij) tanto
maggiormente si nascosero il grano: e la gente moria in tutto il regno».26
La crisi di sussistenza divenne particolarmente acuta negli anni quaranta. Nel
1644 a Palermo fu necessario peggiorare la qualità del pane. Due anni dopo, si
diede praticamente fondo a tutte le scorte di grano. «A Messina le autorità
cittadine bloccarono lo stretto e sequestrarono tutte le navi cariche di cibo di
cui poterono impatronirsi. Anche Siracusa affermò di avere il diritto di fare lo
stesso in virtù di un legittimo privilegio civico. Questo comportamento, per
quanto comprensibile, fu controproducente perché fece sparire dal mercato
forniture di grano delle Puglie, ma ogni città sostenne che se non fosse stato
lei a farlo l ' avrebbe fatto un ' altra.
Messina fu anche costretta a ridurre la razione del pane sovvenzionato e questo
causò dei tumulti».27
Ma i fatti più gravi avvennero a Palermo.28 Non bastassero le
carestie di quegli anni, nel febbraio 1647 piovve tanto da far morire le sementi
già messe a dimora. Chi aveva ancora grano lo seminò di nuovo, ma non tutti
poterono farlo. La primavera fu particolarmente siccitosa e gli aristocratici
nascosero il grano residuo, per tema di vederselo requisire.
Molti contadini si riversarono in città ad elemosinare il pane nei conventi. Le
schiere dei mendicanti crescevano di giorno in giorno. «L '
arcivescovo di Palermo ordinò a tutti i cittadini, sotto pena di multa, di far
penitenza. Incoronati di spine e portando dei teschi, straziandosi con catene di
ferro, i cittadini passavano le giornate in continue processioni. Un osservatore
vide uomini nudi, e per giunta nobili, che tiravano l ' aratro
bardati come animali, facendo finta di mangiare cesti di paglia, e mostrando
altri “miserabili segni di penitenza”; e la principessa di Trabia diede
graziosamente ristoro nella sua casa ad una processione di prostitute. Pietosa,
venne un po ' di pioggia, ma ad essa fece seguito un altro
soffocante scirocco che bruciò quanto restava del raccolto».29
Sicché, quando il 19 maggio, fu giocoforza ridurre il peso della pagnotta
(che si vendeva a prezzo politico) la povera gente temette di morir di fame.
Appena «comparve nelle piazze il pane diminuito» alcuni popolani si recarono al
Duomo «mettendo uno di quei negri pani in una punta di canna», lo mostrarono al
SS. Crocifisso dicendo: «Questo è il pane dalla vostra grazia concessa?». Poi
cominciarono a sfilare in corteo per principali vie cittadine gridando: «Pane
grande, viva re di Spagna e fuora gabelle». E mentre le campane delle chiese
invitavano il popolo alla rivolta, il viceré, marchese Los Velez, si affacciò al
balcone del Palazzo reale per promettere l ' abolizione delle gabelle sui generi
alimentari. Ma sprecò il fiato. La folla aveva già incendiato il Municipio,
distrutto gli uffici del dazio e assaltato le carceri liberando i carcerati. L '
arcivescovo armò il clero. Alcuni nobili cercarono di calmare i tumultanti
gettando monete, altri aristocratici se la diedero a gambe verso le loro
residenze di campagna.
La protesta dilagò in tutta la Sicilia. Si registrarono tumulti a Catania,
Randazzo, San Giovanni La Punta, Siracusa, Girgenti, Sciacca, Marsala, Trapani,
Termini, … Si videro cartelli sediziosi anche nei villaggi. A ripristinare l '
ordine nella Capitale furono poi le corporazioni artigiane e i pescatori. Il
capo della rivolta, Antonino La Pilosa, fu giustiziato: trascinato «al Piano
delle Bologne, gli furono prima strappate le carni con tenaglie di ferro
infocate […] fu quindi strozzato ed il cadavere trascinato per la città
attaccato alla coda di un bue».30
Ma non furono solo questi i tragici avvenimenti palermitani del 1647.
Reduce da Napoli, dove aveva appena assistito alla rivolta di Masaniello
(scoppiata il 7 luglio), il battiloro Giuseppe d ' Alesi volle imitare l '
esempio del capopopolo napoletano, organizzando una nuova rivolta, che ebbe
inizio il 15 agosto con una manifestazione davanti al Palazzo reale e in pochi
minuti divenne guerriglia urbana. I rivoltosi s ' impadronirono subito dell '
armeria del Senato, saccheggiarono i magazzini religiosi e della Dogana.
Giuseppe d ' Alesi «era solito cavalcare per le strade della città vestito di
seta e d ' argento, o ricoperto di una corazza completa con un fucile in
ciascuna mano e un corteo di seguaci. Ricevette i titoli di “Illustrissimo”,
capitano generale e sindaco di Palermo a vita».31 Ma fu gloria
effimera, la sua. Convinto d ' aver dalla sua parte il viceré, il battiloro
invitò il popolo alla moderazione, in attesa che il governo varasse alcune
riforme inerenti la diminuzione delle gabelle alimentari e la concessione di una
maggiore autonomia locale con un più consistente peso delle corporazioni
artigiane. E fece persino decapitare uno dei suoi più stretti collaboratori che
non ne condivideva la linea politica.
Divenne perciò inviso al «basso popolo» e ad alcune corporazioni che non avevano
aderito alla rivolta; e fu vittima di un complotto ordito dall ' aristocrazia
(estromessa dal Municipio) in combutta con gli Spagnoli e il grande inquisitore
Trasmiera. Il 22 agosto fu catturato mentre si nascondeva in una fogna e
decapitato insieme al console dei conciapelle; «le loro case furono distrutte e
le loro teste impalate sull ' inferriata nella piazza principale». I soli
risultati conseguiti dalle rivolte del 1647 furono la nomina di un nuovo viceré
nella persona del cardinale Trivulzio, l ' espulsione dei vagabondi da Palermo e
il permesso accordato ai contadini di lavorare nei campi anche di domenica e nei
giorni festivi, in attesa che si ricostituissero le scorte di grano. Di più l '
arcivescovo di Monreale «assolse il popolo dal peccato di rivoluzione ed
esorcizzò pubblicamente sulla piazza principale i demoni e le streghe che
avevano incitato i contadini a ribellarsi».32
Le rivoluzioni di Palermo e Napoli del 1647 furono represse anche con l '
aiuto di Messina, le cui autorità si comportarono come governanti di una
«città-Stato indipendente».33 Alla mancanza di grano continuavano a
provvedere con azioni piratesche. Nel 1650 una nave denominata «San Francesco»
fu catturata, durante le operazioni d ' imbarco nel caricatore di Messina, «con
tutto il carico di 1192 salme di frumento».34 Il colpo di mano fu
attribuito a non meglio identificati «francesi». Non è escluso però che dietro
questa etichetta si nascondessero le autorità messinesi, del resto non nuove a
simili imprese.
Ad ogni buon conto, dopo una serie di cattivi raccolti, nel 1674 i rifornimenti
alimentari a Messina toccarono il fondo e il popolo, aizzato dai nobili, si
ribellò alla Spagna,35 allora in guerra contro la Francia di Luigi
XIV. Con l ' aiuto dei Francesi, e con una serie di intrighi internazionali in
cui furono coinvolte anche la Turchia e l ' Inghilterra, la città dello Stretto
resistette all ' assedio degli Spagnoli fino al 1678, provocando la distruzione
della fiorente attività bachisericola e della poca cerealicoltura presente nel
suo entroterra. Poco meno di un secolo dopo Messina avrebbe però accolto
calorosamente il viceré Fogliani fuggito da Palermo nel corso di un ' ennesima
rivolta popolare per il pane.36
A scatenare la sollevazione del popolo palermitano fu lo scarso raccolto
del 1773. Appena si accorsero che i rifornimenti alimentari della Capitale
cominciavano a scarseggiare, «alcuni conciatori e armieri andarono scalzi e
penitenti in processione portando corone di spine e percuotendosi a vicenda con
catene, come si usava in tali circostanze; ma ancora una volta la preghiera si
trasformò improvvisamente in violenza. La fame accese un ' esaltazione religiosa
che portò a una profanazione delle immagini dei santi e poi a qualcosa di simile
a una rivoluzione sociale […] Monreale, Montelepre e altri villaggi vicini, come
per un accordo prestabilito, diedero inizio a una guerriglia contro le autorità.
Finalmente fu attaccato il palazzo, al solito grido “Viva il re e fuori il
viceré”. Fogliani, per motivi umanitari, preferì capitolare che ordinare alle
truppe di far fuoco, e fu scortato ignominiosamente fino al porto dai consoli
delle corporazioni».37
Se il viceré si rifugiò a Messina, i grossi proprietari terrieri insigniti
di altisonanti titoli nobiliari si erano guadagnati da giorni la pace nei loro
«Stati» feudali, con viva gioia dei propri vassalli che li aspettavano fuori
paese per portarli in portantina sino alle loro principesche dimore, certi di
esser ricompensati con la distribuzione di qualche pugno di grano o di farina.
Tra gli illustri fuggiaschi che andarono ad asserragliarsi con la famiglia e un
lungo codazzo di servitori nelle ville di campagna, ci fu sicuramente don
Vincenzo Clemente Filangeri Cottone, principe di Mirto, conte di San Marco,
barone di Villafrati, cavaliere del Toson d ' oro, Grande di Spagna di
prima classe, ecc., il quale non dovette soffrire poi tanto, se poté permettersi
di spendere in tre mesi, per la sola cioccolata, la somma ragguardevole di
cinque onze e tre tari, equivalente a più di quanto percepiva in cinque mesi il
suo magazziniere.38 A pagare tanto spreco furono, come sempre, i
vassalli i quali, oltre a dover fare i conti spesso con la fame, non potevano
cuocere il pane in forni diversi da quelli baronali, né comprare generi
alimentari o carne — ammesso che avessero il denaro per farlo — fuori dallo
zagato e dalla macelleria ( pianca) dell '
eccellentissimo padrone.39
Ma tutti i feudatari siciliani furono titolari di «diritti proibitivi»
fino al 1812. E quando non avevano il privilegio esclusivo della cottura del
pane, disponevano di quello della molitura dei cereali. A Resuttano, per
esempio, era proibito ai vassalli «di poter andare a molire frumenti ed altri
generi […] in altri molini fuori territorio, sotto la pena di onze quattro e di
perdere li suddetti generi e le cavalcature sopra cui si troverà il
contrabbando».40 Nessuno poteva «entrar farina di fuori territorio»,
senza pagare preventivamente il dazio. I contravventori incorrevano nella «pena
di onze due e perdere suddetta farina e bisacce». Si doveva pagare il dazio
anche nel caso che si portasse da fuori territorio un pane del valore di più di
quattro grana, cioè «giusta la porzione per quanto un uomo può la sera cenare»,
oppure «molti pezzi di pane che uniti insieme confrontassero e componessero un
pane sano». Insomma, entrando a Resuttano, non pagava dazio solo chi avesse con
sé meno di quattro grana di pane. «E se portasse diversi pezzi di pane alla
quantità di due o più pani — disponeva nel 1762 Federico di Napoli, principe di
Resuttano — , nonostante che detti pezzi non confrontassero, dovrà pure
gabellarsi [pagare il dazio], sotto la pena che trovandosi tal persona entrata
già nelle terre communi col detto pane sano o pezzi di pane come sopra si è
detto, e non avrà intercesso la licenza dal gabelloto del macino, di perdere
suddetto pane e di onze due in denari acquistati al suddetto gabelloto.
Avvertendosi che per il presente capitolo si parla per tutte le persone, tanto
naturali quanto forestieri, ch ' entreranno suddetto pane da fuori territorio
che fu colà macinato e manipolato, non però per li borgesi [contadini poveri] e
giornalieri naturali di questa che andando a travagliare fuori territorio,
portandosi da questa il pane, ritornano da fuori territorio con quello che gli è
rimasto, mentre questi ultimi vi bisognerebbe una pruova particolare di non
esser lo stesso pane che si portarono da questa per condannarsi alla citata
pena».41
A Condrò, nel Messinese, terra di cui era pure principe
Federico di Napoli, era permessa la libera panificazione domestica, ma solo ad
uso familiare. «Nessun panettiere o sia fornaro — ordinava infatti l '
eccellentissimo padrone — possa panizzare frumento per servizio al pubblico
senza prima pigliar licenza dal gabelloto. E ciò ogni volta che sfarà suddetto
frumento con pagargli il dritto a ragione di grani cinque per ogni tumolo. E
contravvenendo alla presente disposizione, si senta incorso nella pena di onze
una per ogni volta che contravverrà, d ' applicarsi terza parte al denunciatore
e l ' altre due terze parti al gabelloto. Per l ' esigenza della qual pena
basterà la pruova con due testimoni».42
I privilegi feudali furono aboliti dalla costituzione del 1812. Ma i
nobili divennero proprietari delle terre che prima avevano in concessione. E il
latifondo cerealicolo continuò a caratterizzare molte plaghe di Sicilia che dopo
l ' unità d ' Italia si sarebbero rilevati ad alta densità mafiosa. La sola
novità di rilievo rispetto al passato fu il passaggio di alcuni ex feudi nelle
mani di alcuni borghesi che si erano arricchiti all ' ombra dei privilegi
feudali. Molti comuni continuarono ad essere amministrati da uomini del passato
regime, adusi ad esercitare il potere nell ' interesse esclusivo dei loro clan
familiari.
Ad Alia, per esempio, ancora quarant ' anni dopo l ' abolizione della feudalità,
i fornai erano obbligati a vendere il pane esclusivamente in determinati luoghi
e con tanto di bollo dei gabelloti delle imposte comunali, cui i primi dovevano
corrispondere «un tarì e grana 10 per onza in valore del pane suddetto, e grana
10 al posto per la vendita». Non rispettare quest ' obbligo significava
incorrere nella «pena pecuniaria di tarì 29, e la perdita del pane a danno del
contravventore» che, fra l ' altro, era costretto a molire il grano nel mulino
dei gabelloti. Insomma, come scrissero i fornai al luogotenente, nel 1852 ad
Alia si continuavano ad esercitare «le proibitive, privative e zagato per
bizzaria; e ciò non dal Barone, ma dal Comune medesimo». Ebbene, dopo che furono
aboliti questi assurdi retaggi feudali, gli appaltatori delle gabelle civiche
«fecero il grande passo d ' investire i loro capitali nell ' affitto e nell '
acquisto di terre e di veri e propri latifondi, un tempo dominio dei baroni
della zona».43
Dopo l ' unità d ' Italia quasi tutti gli ex feudi siciliani
cominciarono ad esser condotti in affitto dai gabelloti che, a loro volta, li
lottizzavano e li subaffittavano o li concedevano a metateria ai
contadini. Questa forma d ' intermediazione veniva praticata da secoli,
ma ora era generalizzata perché una legge dello Stato consentiva ai proprietari
di scaricare il peso dell ' imposta di ricchezza mobile sui gabelloti e
questi sapevano come farla pagare ai borgesi. Si vennero perciò a stabilire
patti agrari, diversi da paese a paese, ma dovunque particolarmente onerosi per
i contadini. Nel cuore della Sicilia del grano, al confine tra le province di
Palermo, Agrigento e Caltanissetta, «dove si era maggiormente sviluppato il
fenomeno della mafia», secondo il prefetto di Palermo, nel 1875 si praticavano
questi rapporti tra i gabelloti e i contadini:
1) Il pagamento del paravanti ossia di quattro tumoli di frumento prima
della divisione del raccolto;
2) Il raccolto è diviso per tre quarti al padrone, per un quarto al borgese;
3) Il borgese paga un tumolo per ogni salma per le spese di guardiania o
custodia dei fondi;
4) Il borgese paga la crivellatura, il trasporto dei grani, etc…;
5) La semente per le terre da ristoppie è fornita dal padrone, ma coll ' obbligo
della restituzione al raccolto del doppio. Si noti che è uso dei gabelloti
consegnare la semente bagnata per aumentare il volume e così avere un ' altra
maggiore usura nella restituzione;
6) Per la coltura a fave la semente è pure fornita dal padrone, ma compensata
dal borgese come sopra, in ragione di quattro tumoli a salma;
7) Sulle fave il borgese paga pure un diritto detto terraggiolo, ossia dieci
tumoli colmi di fave;
8) L ' alternativa delle terre consiste generalmente nella semina di un anno a
fave, dell ' altro a frumento;
9) Gli arnesi rurali, le bestie da tiro, l ' aratura, sono a carico dei borgesi.44
Condizioni sostanzialmente analoghe riscontrò nel 1893 Adolfo Rossi, inviato
speciale del giornale romano La Tribuna , a Corleone e a Piana dei
Greci. E non troppo diverse erano quelle di Villafrati.45 Qui un
ufficiale dell ' esercito nel mese di luglio 1893 ebbe modo di
constatare come andavano veramente le cose: «Finita la misurazione, non rimase
al contadino che un tumulo di grano. Tutto il resto era andato al padrone. Il
contadino, con le mani e il mento appoggiati al manico di una pala, guardò da
principio come inebetito, quell ' unico tumolo della sua parte, poi
guardò sua moglie e i suoi quattro o cinque figli che se ne stavano in disparte,
e pensando che dopo un anno di stenti e di sudore non gli era avanzato per
mantenere la famiglia che quel tumolo di grano, rimase come impietrito: solo due
lacrime gli scendevano silenziosamente dagli occhi. Finché campo non
dimenticherò mai quella scena muta. E si noti che dopo la divisione non solo i
contadini rimangono senza grano, ma restano pure in debito».46
Il nodo del latifondo venne al pettine grazie al movimento dei Fasci dei
Lavoratori repressi da Crispi nel gennaio 1894. Nel mese di luglio dello stesso
anno il medesimo presidente del consiglio presentò in Parlamento un progetto di
legge con cui si proponeva di «eccitare l ' incremento della produzione
agraria […], creare fra i contadini, come il più pratico temperamento dei danni
della grande proprietà, una classe di piccoli proprietari affezionati alla
terra, interessati alla coltura intensiva, elementi di ordine e di pace sociale;
eliminare […] il sistema dei grandi affitti o gabelle con la relativa
graduazione onerosa delle sub-gabelle , agevolando e anche imponendo
con determinate garanzie la locazione diretta fra i vari lavoratori del suolo;
promuovere con la facilitazione del credito e con altre agevolezze la
trasformazione delle colture, il ripopolamento delle campagne ed ogni altra
miglioria agraria; eccitare nelle considerevoli iniziative degli interessati e
nelle possibili applicazioni alla vita agricola il concorso delle varie forme di
cooperazione all ' elevamento economico e sociale delle classi rurali
in Sicilia».47
Non se ne fece niente. Perciò molti contadini emigrarono altre oceano.
Altri crearono strumenti simili alle Casse di resistenza , come quella
promossa dal Fascio dei lavoratori di Corleone che nel mese di ottobre 1893
aveva raccolto 300 salme di frumento e 25.000 lire e l ' inverno
precedente aveva già somministrato ai soci soccorsi in grano «a miglior prezzo
dei proprietari stessi».48 Ad intraprendere questa strada furono i
contadini di Alia servendosi della Società di mutuo soccorso «l '
Avvenire», costituita il 5 febbraio 1893. Questa nei primi anni del
Novecento disponeva di un capitale sociale di oltre 20 mila lire e più di 220
salme di grano, che prestava ai soci a condizioni molto vantaggiose,
contribuendo così alla «totale scomparsa dell ' usura, abbastanza esosa
un tempo». E non è escluso che questo sodalizio abbia messo in crisi i Monti
di prestanza privati facenti capo ai grossi gabelloti e ai proprietari
terrieri. Uno di questi monti, «quello del Cav. Guccione Gioacchino fu Matteo»,
prima aveva «un capitale di salme 1000 in frumento e di salme 200 in fave ed
altri generi» e all ' inizio del Novecento poteva impiegare «appena un
centinaio di salme di solo frumento». Gli altri erano «tutti scomparsi come per
incanto». E si capisce bene perché, considerato che lo stesso Monte di
prestanza del cav. Guccione era costretto a mutuare il grano «a ragione di
tumolo uno a salma»,49 pari al 6,25%: una miseria, insomma, se si
pensa ai guadagni dei tempi d ' oro dei gabelloti. Ma Alia, non era la Sicilia.
E il latifondo continuava ad imperversare.
Mussolini promise «l ' assalto al latifondo»,50 ma riuscì a
realizzare solo un po ' di bonifiche e poche case coloniche. La tanto
strombazzata «battaglia del grano» del 1925, oltre a far seminare il frumento in
certe pietraie dove non cresceva nemmeno erba per le capre, servì solo a
distribuire attestati di benemerenza al fior fiore dei gabelloti di Sicilia e a
premiare il tema di uno studente del Regio Istituto Magistrale di Brescia, il
cui attacco era un retorico omaggio ai successi del regime:
La commossa aspirazione virgiliana di un'Italia «magna
parens frugum» è oggi consacrata: la celebrazione del pane — seguita alla
battaglia del grano — adombra tutto un'ideale d'umanità e di civiltà, esalta la
gloria dei campi, l'orgoglio del lavoro, la gioia del focolare domestico,
auspica la ricchezza della patria, florida all'interno, e lanciata sulle vie
millenarie percorse dalle legioni di Roma.51
Ma quel'erano, in Sicilia, queste «vie millenarie percorse dalle legioni di
Roma»? Erano forse le polverose trazzere che dalle grotte abitate di Modica si
snodavano fino ai latifondi della Sicilia interna? Se erano quelle, non vi
transitavano le legioni di Roma, ma le misere carovane dei nomadi delle stoppie,
il popolo degli spigolatori di Modica.52 «Una delle forme di guadagno
– scriveva nel 1961 lo scrittore modicano Raffaele Poidomani –, la più triste ma
risolutiva ed oggi sconosciuta in Italia è la spigolatura: bisogna rifarsi alla
poesia di Mercantini per trovarne riscontro. Immane fatica alla quale si
sobbarcano circa quattromila persone per oltre due mesi, compreso il viaggio di
andata e ritorno, e che si conclude, quando tutto va bene, nell'avere assicurato
il pane, nient'altro che il pane, sino alla nuova stagione […]. Io dedico queste
pagine e quelle che seguiranno alla signora Puma, ch'io conobbi nel sole di
fuoco all'ombra di un carro, ora scomparsa, alla famiglia che mi accolse nelle
sue tende e a tutta la gente che nell'arsura di fuoco del feudo brucia le ossa
guadagnandosi un pane che in tal modo può acquistarsi solo all'inferno».
Quell'esodo, che si concluse proprio agli inizi degli anni sessanta, non era
cominciato all'epoca di Verre. È storicamente provato che il fenomeno si
sviluppò, almeno in quelle forme, all'indomani della prima guerra mondiale. E
forse non avrebbe mai raggiunto dimensioni bibliche, senza la retorica della
«battaglia del grano», che portò le nuove leve dei mietitori iblei nei latifondi
della Sicilia interna. «Tuttavia – prendiamo di nuovo in prestito le parole di
Poidomani – , sola in Italia, Modica detiene questo primato, e c'è fra i
cittadini chi sostiene che questa è la sua ricchezza. Io che ho fatto questa
inchiesta, mi son sentito dire che proprio gli spigolatori sono l'espressione
dell'abbondanza e della sicurezza del paese; perché portano roba a casa, perché
si fa il calcolo delle salme, dei quintali di frumento che, a costo delle più
amare traversie, essi vanno a raccogliere in luoghi insalubri, per radunarli poi
nelle loro case che fanno parte della città di Modica».53
Case che erano spesso grotte o dammusi , abitazioni improprie. Ma
ci vivevano per dieci mesi all ' anno, assieme all ' asino e
alle galline, migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini che conoscevano come
le loro tasche le più desolate contrade della Sicilia del grano. Anche questo
racconta la terra di Cerere.
Note
1 Cfr. A. Buttitta - A. Cusumano, Pane e festa, cit., p.16.
2 Cfr. A. Uccello, op. cit. , pp.15-16.
3 Cfr. G. Stazzone,' U Muzzuni, festa popolare di canti,
Messina 1986.
4 Cfr. M. Zanzucchi Castelli, Pane – universo di simboli e riti,
Modena 2000, p.153.
5 Cfr. M. I. Finley, op.cit., p.37.
6 Cfr. V. Ja. Propp, Edipo alla luce del folklore, Torino
1975, pp.64-65. In merito al pianto per il vuoto vegetale cfr. E. De Martino,
Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino 1975, pp.236-286.
7 Cfr. E. Costanzo – M. Liberto, I prodotti dell'Isola del Sole,
viaggio tra mito, storia, tradizione, leggenda e realtà delle produzioni
agroalimentari di Sicilia, Regione Siciliana, Palermo 2001, p. 37.
8 Cfr. M. Zanzucchi Castelli, Pane cit., p.149.
9 Cfr. J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Milano 1991, p.288.
10 Cfr. H. E. Jacob, op. cit., p.326.
11 Cfr. A. Uccello, op. cit. , pp.18 e 129.
12 Cfr. J. Houl, Viaggio in Sicilia , Siracusa 1999, p.101.
13 Cfr. G. Nesti, I Fasci Siciliani , Messina 1994, pp. 8-9.
14 Cfr. O. Cancila, Il grano in Regione Siciliana,
Catalogo agroalimentare , Palermo 1989, p.89.
15 Cfr. Ibidem .
16 Cfr. G. Cavallari, La campagna granaria in Sicilia nell'epoca
romana , Palermo 1989, p.89.
17 Cfr. O. Cancila, op. cit. , p.90.
18 Cfr. Ibidem, p.93.
19 In proposito cfr. R. Moscati, Per una storia della Sicilia
nell'età dei Martini, Messina 1953; V. Titone, La Sicilia spagnola
Saggi storici , Mazara 1948.
20 Cfr. G. Oddo, Il blasone perduto Gloria e declino della città
di Modica 1392-1970 , Palermo 1988, p.22; E. Sipione, I privilegi della
contea di Modica e le allegazioni di G. L. Barberi in ASSO , LXII (1996).
21 Cfr. F. Brancato, Il commercio dei grani e una proposta di
riforma dei caricatori in Nuovi Quaderni del Meridione , 1972,
n.38, pp.129-152. Per l'andamento della tratta dal 1423 alla sua
abolizione (1824) cfr. O. Cancila, I dazi d'esportazione dei cereali e il
commercio dei grani nel regno di Sicilia in Nuovi Quaderni del
meridione , 1969, pp. 402-443.
22 Cfr. O. Cancila, Baroni e popolo nella Sicilia moderna ,
Palermo 1983, passim.
23 Cfr. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di
Filippo II , volume primo, trad. it., Torino 1992, p.152-153.
24 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna
, trad. it., Bari 1970, p.225.
25 Cfr. G. A. Garufi, Patti agrari e comuni feudali di nuova
fondazione in Sicilia in Archivio Storico Siciliano , S. III, vol.
2, I, Palermo 1946, pp.31-111, II, Palermo 1947, pp. 7-131. A. Pecora,
Sicilia , Torino, 1974, pp. 132-138; M. Giuffrè (a cura di) Città nuove
di Sicilia XV-XIX secolo, Palermo, 1978; V. Titone, La Sicilia dalla
dominazione spagnola all'unità d'Italia, Bologna 1955.
26 Cfr. A. Siciliano, Sulla rivolta di Palermo del 1647 ,
Palermo 1990, p.18.
27 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia cit., p.267.
28 Cfr. A. Siciliano, Sulla rivolta cit.; I. La Lumia,
Giuseppe d'Alesi e la rivoluzione di Palermo del 1647, Palermo 1863.
29 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia cit., p.268.
30 Cfr. A. Siciliano, Sulla rivolta cit., p.32.
31 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia cit., p.372.
32 Cfr. Ibidem, p. 273.
33 Cfr. Ibidem, p. 278.
34 Cfr. G. Morana, «Estrazioni» di grano dal Caricatore di
Pozzallo nel Seicento , Archivio di Stato Ragusa 1985, p.2.
35 Cfr. M. Petrocchi, La rivoluzione cittadina messinese del 1674
, Firenze 1954.
36 Cfr. N. Caeti, La Cacciata del viceré Fogliani in
Archivio Storico Siciliano 1909-1910.
37 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia cit.,
pp.403-404.
38 Cfr. Archivio di Stato Palermo, not. R. Scaccia, Note spese
per alcuni commestibili ed altro provvisti dall'Ill. Don Diego Cammarata,
procuratore del principe di Mirto , 30 ottobre e 30 dicembre 1773. Cfr.
pure G. Oddo, Lo sviluppo incompiuto , cit., pp. 68-69.
39 Archivio di Stato Palermo, Deputazione del Regno, Riveli 1816, b.
55 A.
40 Cfr. O. Cancila (a cura di), Federico di Napoli Noi il
Padrone, Palermo 1982, p.39.
41 Cfr. Ibidem, p.18, 19.
42 Cfr. Ibidem, p.203.
43 Cfr. E. Guccione, Storia di Alia 1615-1860,
Caltanissetta-Roma 1991, pp. 338-345.
44 Cfr. Archivio di Stato di Palermo, Pref. Gab. B.35, cat.16,
fasc.16 citato da F. Brancato Agricoltura e politica in Sicilia (dall'unità
al fascismo) in Nuovi Quaderni del Meridione N.65-68, 1979,
pp.70-71.
45 Cfr. G. Oddo, Lo sviluppo incompiuto , cit., p.282.
46 Cfr. A. Rossi, L'agitazione in Sicilia , Palermo 1988, p.
79-80.
47 Cfr. S. F. Romano, La Sicilia nell'ultimo ventennio del secolo
XIX, Palermo 1958, pp. 274-275.
48 Cfr. A. Rossi, op. cit., p.80.
49 Cfr. Alia di Ciro Leone Cardinale. Monografia tratta
dall'opera «Dizionario illustrato dei comuni siciliani» a cura di Francesco
Nicotra., Palermo 1995, pp.48-49.
50 Cfr. T. Vittorio, Il lungo assalto al latifondo-Spiritara e
contadini nelle campagne siciliane (1930-1950), Catania 1985.
51 Cfr. Opera italiana Pro Oriente, Il pane – temi premiati nel
concorso nazionale per la celebrazione del pane 1928-VI , Milano 1929, p.
19.
52 Sull'argomento cfr. G. Oddo, Il blasone perduto cit.,
pp.11-13, 61-62, 209, 214; Id. Gli spigolatori di Modica e il movimento
contadino in Centro Studi «Feliciano Rossitto», I cinquant'anni di
agricoltura in Sicilia, Atti del Convegno Regionale Ragusa 26-27-28 marzo 1987,
Ragusa 1989, pp.106-120; Id. I nomadi delle stoppie in Nuova
Agricoltura , maggio 2000, pp.59-61; Fu merito delle spigolatrici il
riscatto delle campagne in Giornale di Sicilia 27 marzo 1987,
cronaca di Ragusa ; R. Poidomani, Gli spigolatori di Modica, in
Il Mattino di Modica , 9 luglio 1961; Gli ultimi spigolatori
in Uomini domani , anno I, n.5, Ragusa, 9 aprile 1963; R. Rochefort,
Le travail en Sicile, Paris 1961; S. Nicosia, La coltivazione
tradizionale del frumento nei latifondi del Vallone in AA.VV. La
cultura materiale in Sicilia, Palermo 1980, p.251.
53 R. Poidomani, Gli spigolatori cit.