Tutte le feste e le festicciuole particolari, tranne il carnevale, hanno un
carattere religioso; cioè, intendiamoci bene, la religione è un pretesto, un
santo pretesto che serve a salvar le apparenze; ma lo scopo vero, ultimo, reale,
è quello di far baldoria, di gozzovigliare. Ne volete un esempio? Non c’è festa
religiosa in Palermo, che non abbia il suo manicaretto, il suo dolciume
occasionale. Lo sentirete adesso che, a cominciar dalla Pasqua, vi andrò
discorrendo delle varie solennità chiamiamole pure religiose.
Così scriveva Enrico Onofrio nella Guida pratica di Palermo, edita nel 1882, per
i tipi dei fratelli Treves di Milano, in occasione del VI centenario del Vespro.
Non c’è dubbio che, come ebbe a scrivere lo stesso autore a proposito del
Natale, «tutti i salmi finiscono in gloria e non c’è festa senza farina».1
L’orgia alimentare è d’altronde tratto comune a tutte le feste religiose, e non
solo a Palermo o nella Conca d’Oro, ma in tutto il mondo.2
«La festa – sono parole di Freud – è un eccesso permesso, anzi sofferto,
l’infrazione solenne di un divieto. Gli uomini si abbandonano agli eccessi non
perché siano felici per un qualche comando che hanno ricevuto. Piuttosto,
l’eccesso è nella natura stessa della festa; l’umore festoso è provocato dalla
libertà di fare ciò che altrimenti è proibito».3
È pur vero però che gli aspetti trasgressivi della festa, lungi dall’abolire le
regole del vivere quotidiano, finiscono per confermarle e, addirittura, per
rafforzarle. In buona sostanza, gli stravizi di un giorno sono spesso preceduti
e seguiti da mesi e mesi di forzata astinenza, almeno nelle società
tradizionali. Una lettura più attenta dei fenomeni festivi non può quindi
prescindere da un approccio antropologico atto a cogliere la dialettica fra le
due dimensioni del tempo (sacro e profano) in rapporto alla realtà
socio-economica e culturale delle comunità di cui sono espressione o che in essi
si riconoscono. Si pone in questa prospettiva la ricerca di Fatima Giallombardo.
«La festa — sostiene — scandisce le fasi del calendario: essa è cioè legata
all’organizzazione sociale del tempo. È il mezzo con cui le popolazioni affidano
quasi per intero la loro sopravvivenza all’ordinato svolgersi dei cicli
naturali, fanno regolarmente ricorso per risolvere gli stati di incertezza
vitale e esistenziale. Il momento rituale ripropone sul piano mitico le
proprietà di abbondanza e pienezza di vita che, attraverso un processo di
definizione formale, conferiscono a chi vi partecipa stati di certezza e di
sicurezza. Ambiente, tempo, società, nei rituali festivi risultano dunque
strettamente correlati. È perciò possibile, in riferimento alla festa, parlare
di scansione sociale del tempo, non solo perché essa ripropone (a livello
mitico-rituale) la sicurezza vitale del gruppo, ma anche perché questo,
attraverso la socializzazione rituale, assume consapevolezza di essere nel
tempo, ritrovando gli stessi giorni, il ripetersi degli stessi cicli e degli
stessi fenomeni di morte e rinascita della natura».4
Se questo è il significato più profondo delle feste, non deve sembrare eccessivo
il peso che tuttora ha il pane in vari rituali festivi dell’Isola. Il
provvidenziale alimento è, infatti, in molte occasioni «protagonista di altari e
banchetti, di doni e di voti, di questue e di redistribuzioni»,5
rinsaldando così vincoli di parentela e d’amicizia, rapporti di appartenenza e
di solidarietà cristiana, d’interlocuzione e di scambio con Dio, la Madonna e i
Santi, divenendo, a preferenza di ogni altro cibo, veicolo di comunicazione
sociale e referente primario nell’eterna avventura umana del vivere e del
morire, «per affermare la vita come essere: orizzonte in cui tutto finisce per
ricominciare».6
Il pane, che è «contemporaneamente alimento e segno, sussistenza e forma», in
certe ricorrenze viene modellato in modo da significare che è festa, quella data
festa addirittura, e non un’altra. «In questi casi il valore di forma o la
funzione di segno travalicano […] il valore di sussistenza e la funzione di
alimento. E tuttavia la componente di alimento e sussistenza continua a
permanere, così come la componente formale resta anche quando si esca dai
prodotti cerimoniali».7 A tal proposito la realtà siciliana è ancora
campo d’osservazione abbastanza significativa. E qualche esempio lo abbiamo già
riscontrato nella festa dei morti, che segna l’inizio dell’anno agrario
(coincidendo con la stagione delle sementi).
Un ricco campionario di pani festivi (ma anche di consumo giornaliero) e di
dolci tipici siciliani fu presentato per la prima volta a una nutrita schiera di
visitatori provenienti da ogni parte d’Italia nell’ultimo decennio
dell’Ottocento, quando Giuseppe Pitrè ricevette «l’onorevole incarico di
ordinare ed eseguire», per conto del Comitato Esecutivo della Esposizione
Nazionale Italiana di Palermo, la Mostra Etnografica Siciliana, all’interno
della quale fu allestita una sezione Alimenti.8 L’insieme della
mostra fu ritenuta di «particolare interesse». Né poteva essere diversamente,
considerata «quella notevole quantità di oggetti, pazientemente raccolti e
ordinati nell’ordine più opportuno».9
Ma nulla ci dicono le fonti indagate sull’impressione riportata dai visitatori
della sezione Alimenti. Certo è, comunque, che Pitrè continuò a raccogliere pani
e dolci festivi, pezzi di devozione. Per di più, sull’esempio di Lamberto Loria,
che nel 1906 aveva fondato a Firenze il Museo Etnografico Italiano, nel 1910
Pitrè diede vita a Palermo al Museo Etnografico Siciliano, dove trovarono
adeguata sistemazione gli etnoreperti raccolti in occasione delle Esposizioni
nazionali di Milano (1881) e di Palermo.10
E non si dimenticò di sistemarvi pani e dolci festivi, tra cui alcuni pezzi di
devozione «in forma di Croce di Malta, di uccellini, di ciambelle, di ciambelle
crociate»11 inviatigli dal dottor Vito Graziano, appassionato
indagatore delle tradizioni popolari di Ciminna e futuro storico locale.12
Ora, al di là della forma, rimane da capire cosa volessero significare i pezzi
di devozione. Sono pani devozionali, naturalmente. Ma forse sarebbe meglio
chiamarli pani votivi o ex voto di pane, a voler considerare la ragione per cui
venivano confezionati e l’uso che generalmente se ne faceva: «In quasi tutti i
comuni dell’Isola — scriveva sul finire del 1912 Pitrè —, per grazie invocate ed
ottenute ed a compimento di voti fatti, si usa eseguire o far eseguire in certe
feste dell’anno delle devozioni, panini sacri». E aggiungeva: «La loro quantità
è prestabilita dal voto. Tizia, p.e., avrà promesso mezzo, un quarto di mondello
(un mondello equivale a litri 4,298) di semola, o di farina, o anche in materia
prima, di frumento da convertire in pani e panini; ed allo avvicinarsi della
ricorrenza festiva del santo della grazia chiesta, fa preparare o prepara essa
medesima in casa con lo aiuto dei suoi tanti pezzi di devozione che dovranno
assorbire la quantità della crozza (questa, per chi nol sappia, è la dodicesima
parte di un tumolo). Fornite le devozioni, la donna le porta o manda in chiesa a
farle benedire da un sacerdote, e le consegna alle persone che si occupano della
parte finanziaria e devota della festa, come a dire della raccolta delle offerte
[…]. Le persone, sedute a un banco, di fronte all’altare maggiore, alla entrata
della chiesa, ricevuta l’elemosina, danno in contraccambio qualcuno di quei
panini ed un’immagine del santo festeggiato».13
Ciò che stupisce in queste pie tradizioni è la povertà di certe offerte: una
crozza di grano equivaleva infatti a poco più di un chilogrammo, da cui
bisognava togliere gli scarti e, nondimeno, era sufficiente per tessere una
fitta trama di relazioni sociali, sotto l’occhio benevolo del Santo. Ma lo
stupore non ha motivo di esistere, ove si consideri la fame di quei tempi, anzi
lupa che a Mazara alimentava una strana credenza: «Quando i bambini sono troppo
voraci— scriveva nel 1878 Raffaele Castelli—, dopo di esser cotto il pane, prima
di cavarlo dal forno, tolto da questo il lastrone, vi si avvicinano e ne si
ritraggono tre volte dicendo: Empiti, lupo, per grazia di Dio! E bisogna sapere
che in Sicilia la voracità è detta lupa».14
Tuttavia, allupate anche loro per fame arretrata, le nostre antiche madri di
famiglia non erano certo prive di fantasia in materia di devozioni. E poco
importava se i «festaiuoli», cioè gli organizzatori della festa, traevano
qualche profitto personale dalla vendita delle offerte in natura fatte da altri
morti di fame, che se le toglievano dalla bocca pur di venire in possesso di un
pezzo di devozione e di un’immaginetta sacra: gli scellerati dovevano vedersela
col Santo il quale, al momento opportuno sapeva vedere e provvedere, come
Sant’Antonio Abate che non esitava a punire gli empi coprendoli di focu di
Sant’Antoni (herpes zoster).
Il 17 gennaio, giorno della festa di questo santo miracoloso— oltre alla
benedizione degli animali, mafiosamente parati, come negli altri paesi
siciliani—, nella Ciminna dei secoli passati si solevano macellare, a spese
della chiesa o di particolari devoti, alcune vacche. «La carne era benedetta
solennemente e dopo cominciava la distribuzione, nella quale vi erano dei
privilegi. Infatti un quarto di vacca toccava al barone del paese e un altro ai
preti, fra i quali erano anche i privilegiati, perché all’arciprete spettava una
testa di vacca, al cappellano notturno della Matrice un’altra vacca e una
quartara di sangue, al sagrestano della chiesa li cosi di dintra [le interiora].
La distribuzione della carne al popolo si faceva in proporzione all’elemosina
fatta al santo, e in quel giorno era vietato ai macellai la vendita della carne.
Per darle maggiore fragranza la carne era ornata con rami di alloro e di
arancio, e si racconta che una volta, in mezzo a detti rami fu dimenticato un
quarto di vacca, che nell’anno seguente fu trovato per miracolo del santo sano e
fresco».
Inoltre, si donavano al popolo, nemmeno a dirlo, «dei panini (panuzzi) che erano
grandi quanto un soldo di pane di quel tempo e distribuivansi alle
confraternite, le quali intervenivano alla processione del santo. Il frumento
era comprato a spese della chiesa; ma, cessata la macellazione delle vacche, i
detti panini furono sostituiti da altri più piccoli senza lievito, detti
divuzioni e fatti di varie forme, fra le quali quelli di maiali o di fiamme. Si
facevano pure molti pani di S. Antonio e si distribuivano ai poveri. Ogni
sagrestano che suonava le campane aveva diritto a un pane, ma a quello di S.
Antonio spettava anche un fiasco di vino, perché il giorno della festa, due ore
prima di far giorno, suonava lu patrinostru, chiamato così perché al suono di
quella campana ogni persona doveva recitare un paternostro al santo della
chiesa».15
La tradizione di confezionare pani in occasione della festa di Sant’Antonio
Abate un tempo era diffusa in tutta la Sicilia. Un esemplare zoomorfo,
raffigurante un maiale, fu esposto da Pitré nella mostra del 1891-92. A Noto,
ancora negli anni cinquanta si preparava un pane «a forma di grossa cuddura,
ciambella che a volte raggiungeva il peso di circa dieci chilogrammi. Dopo la
benedizione, che si soleva fare durante la cerimonia religiosa, il pane si
distribuiva a tutti coloro che prestavano servizio in chiesa e ai poveri».16
Ma ci sono esempi anche più recenti:
«A Canicattini Bagni— scriveva Antonino Uccello nel 1976— si lavorano dei panini
forma di ciambelline, di appena 5 cm di diametro, con farina di grano duro, e
senza sale: sulla congiunzione delle due estremità s’imprime la parte piatta di
una chiave, in modo che vi si lasci l’impronta. Questi panini vengono portati
nella chiesa madre, dove si venera una statua di S. Antonio e, una volta
benedetti, si distribuiscono a tutti i fedeli, i quali li mangiano dopo aver
recitato una preghiera. Una di queste ciambelline si conserva e si appende con
un nastrino rosso al capezzale per proteggere la casa dal pericolo d’incendio».17
A Paternò il 17 gennaio i fornai sogliono tuttora confezionare panuzzi di pasta
dura che vengono acquistati dai devoti del Santo i quali, dopo averli fatti
benedire dal prete, li distribuiscono a parenti e amici. A Cerami S. Antonio
Abate è festeggiato in modo solenne l’ultima domenica di giugno: «Il giorno che
precede la processione si svolge una suggestiva e tipica sfilata di cavalli con
l’offerta ai partecipanti di pane, formaggio e vino».18 A Valledolmo
il Pane di Sant’Antonio «era il pane che le famiglie agiate, ogni martedì,
portavano alla chiesa delle Anime Sante per farlo benedire e distribuire ai
poveri e ai parenti per devozione».19
Anche Sant’Antonio da Padova, la cui festa cade il 13 giugno, è santo del pane:
non solo perché protegge le messi e aiuta le ragazze a trovare marito,
preferibilmente capace di assicurare il pane alla famiglia, ma anche perché in
suo onore tuttora si preparano devozioni in vari comuni dell’Isola. Nel
Trapanese, assicura Antonino Cusumano, si confeziona «un panuzzu rotondo dal
peso di circa 100 grammi, talvolta ricoperto di sesamo che, portato in chiesa
nei giorni della “tredicina” di giugno dedicata al Santo, all’interno di sacchi
di olona o di ceste, si fa benedire e distribuire a tutti i presenti».20
A Menfi, cittadina di cui il glorioso santo è protettore, il 13 giugno «si
svolge una suggestiva processione del simulacro del santo, con distribuzione per
le vie cittadine del pane benedetto».21 A Roccamena lo stesso giorno
l’amato Santo viene festeggiato con una messa solenne nel convento delle Suore
Cappuccine, alla quale seguono «la distribuzione alla popolazione dei panini
benedetti e la benedizione delle orfanelle».22 E pane benedetto viene
pure distribuito, sempre a gloria di Sant’Antonio da Padova, il 13 giugno a
Castelbuono.23
Ancorché nero e d’aspetto quasi «musulmano», nell’Agrigentino, in certe zone del
Nisseno e del Palermitano e nell’area dei Nebrodi, San Calogero è tenuto in
somma considerazione, al punto da appannare l’immagine dello stesso Patrono,
laddove non è lui a ricoprire questo ruolo: ne sa qualcosa San Gerlando di
Agrigento.24 L’iconografia devota lo raffigura come un barbasavio
all’antica, un bel vecchio, insomma, e non sempre dalla pelle scura.25
Si umanizza ulteriormente quando la sua statua è condotta in processione ad
Agrigento. «Nella mano sinistra ha un bastone, sotto il braccio il libro della
Sapienza; dalla mano destra, invece, pende un cassettone d’argento con una
treccia di capelli votivi stretti da fettuccine. Esso protegge e guarisce gli
erniosi e il giorno della festa è portato in processione per la via principale
della città, di corsa, in modo alquanto scalmanato, dai fercolanti che spesso,
per devozione, sono scalzi. Quando il Santo si ferma, dai balconi e dalle
finestre, cade violenta pioggia di pane. È la ripresa di un momento
caratterizzante una certa agiografia del Santo allorché San Calogero noncurante
del pericolo della peste, andava di casa in casa per curare gli ammalati e,
annunciandosi con un rullare di tamburi, chiedeva ai ricchi, barricati nei loro
palazzi, l’elemosina per i suoi poveri, sicché il pane gli veniva lanciato da
finestre e balconi. E poco importa se il Calogero agrigentino, nella dimensione
del rito sembra recuperare elementi agiografici pertinenti ed altri “Calogeri”,
sicuramente più tardi e locati altrove (probabilmente il riferimento è al
Calogero di Naro); per l’analisi resta fondante l’elemento portante di una
figura agiografica carismatica e taumaturgica, guaritrice e dispensatrice di
beni. Pertanto, stretto dalla ressa dei devoti che si affollano per raccogliere
da terra il pane miracoloso, si dice che il Santo sudi, e, allora, i fedeli si
arrampicano sul fercolo per asciugarlo con delle pezzuole bianche che diventano
anch’esse miracolose».26
A Santo Stefano di Quisquina il Santo taumaturgo e romito è festeggiato per due
giorni di seguito, il 17 e il 18 giugno. «La sera del 17 si svolge una
caratteristica fiaccolata con i singolari “famari” che accompagna la statua del
Santo dalla Matrice alla vetta del Monte S. Calogero, ove sorge la chiesetta. Ai
pellegrini, all’arrivo in cima, viene offerto pane benedetto, ricotta, patate,
uova, polli e vino».27 A Caltavuturo il 18 giugno assieme alla festa
di San Calogero si organizza anche la Sagra del pane. «In occasione di questa
ricorrenza, per grazia ricevuta, vengono confezionati dei pani, rievocanti nella
forma le parti del corpo malate, e vengono distribuiti alla popolazione». A
Petralia Sottana durante i festeggiamenti alla vara del Santo vengono attaccati
«mazzi di fiori, di fave, di scocche di grano, fiaschi di vino allegramente
svuotati dalla folla durante la processione»28
A Favara il nostro Santo è chiamato affettuosamente San Calò
ed è ritenuto protettore, oltre che degli erniosi, dei sordomuti. La sua statua
ha l’aspetto di «un vegliardo eremita africano, di regolare statura, labbra
sorridenti, ben fluente barba, largo mantello chiazzato da rotondi raggi
indorati figuranti le iniziali del Santissimo nome di Gesù». La festa si celebra
solennemente la prima domenica d’agosto, nel periodo cioè del rientro annuale
degli emigrati. Durante la processione, «quando meno te l’aspetti, ti vedi
piovere dall’alto dei balconi fette di pane».29
Nella vicina Aragona si modellano ex voto di pane raffiguranti parti del corpo
umano guarite dal Santo taumaturgo. «Tu quindi troverai — informava Pitré — un
gran pane che raffigura una gamba, un piede, un braccio, una testa. Questi pani
o si portano in chiesa o si offrono in strada nel momento che passa la statua
del Santo. Là, durante la messe solenne, qui, trinciandosi una benedizione
purchessia, il pane viene benedetto e diviso in due: un pezzo, messo nel sacco,
sarà poi diviso ai poveri: un altro, rotto in molti pezzetti, è gettato ai
devoti presenti. Così benedetto, questo pane diventa prodigioso e come tale
viene mangiato in occasioni tristi e calamitose della vita».30
Adesso non è più così, naturalmente. Ma gli ex voto di pane forse si fanno
ancora, sia pure in forni pubblici anziché domestici. Si facevano sicuramente
negli anni settanta, anche se non si confezionavano più pani neri (come il
colore del volto di San Calogero), di grano duro, cosparsi di semi di papavero
(paparina), ma pezzi anatomici di grano tenero con semi di sesamo.31
La tradizione degli ex voto di pane portati dai fedeli al Santuario di San
Calogero resiste meglio, forse, nel Nisseno.32
Rimangono invece soltanto sbiadite testimonianze letterarie su certi pani votivi
esistenti quando scriveva Pitré, come il pizziddatu di San Micheli (ciambelletta
dedicata all’Arcangelo che si faceva a Nicosia il 29 settembre), li firruzzi di
Sant’Aloi (panetti a forma di ferro di cavallo con i segni dei chiodi, che si
preparavano a Collesano in occasione della festa di Sant’Eligio, protettore
degli equini), i cuddureddi di San Giuvanni di Girgenti (di varie forme, che
pesavano circa venti grammi e si conservavano per devozione), i panuzzi di San
Giuvanni di Castelvetrano, descritti a suo tempo come «panini quanto due
centesimi di Lira, con la impressione della croce di Malta in alcuni, della
testa di S. Giovanni in altri, e s’inghiottono durante i fulmini, i terremoti ed
altri rivolgimenti metereologici e tellurici per restare incolumi». In proposito
vale la pena di ricordare con Pitrè che, imperversando i tuoni, i siciliani
invocavano, «oltre S. Barbara, tutti i santi Giovanni principiando dal Battista,
di cui la tradizione fanciullesca racconta che, quando si sente il rimbombo dei
tuoni, egli gioca con G. Cristo in cielo. La invocazione è questa:
San Giuvanni Battista
San Giuvanni Evangelista
San Giuvanni Vuccadoru
Scanzatini di lu lampu e di lu tronu!
La impronta della crocetta di Malta deve avere un origine storica; ed è risaputo
che il Precursore è il patrono dei Cavalieri Gerusalemitani».33
Inoltre non c’è più traccia del pani cu la paci che si preparava nell’Ottocento
il giorno di Capodanno a forma di «due braccia incrociate, ad augurio di
concordia e di pace domestica»,34 né dei panetti di San Nicolò della
Candelora che a San Fratello si distribuivano «a cura delle due chiese rivali
una dell’altra, di S. Nicolò e di S. Maria».35 E sono pure scomparsi:
i pupiddi nanau, «pupattole a varie dimensioni di pasta mescolata di miele e
farina aventi la figura di donna con un cilindro in capo, le mani ai fianchi e
vesti così lunghe che [apparivano] senza piedi », vendute per pochi spiccioli
dai tirrunara di Palermo alla vigilia della festa dei Santi Cosma e Damiano;36
i cudduri di Sant’Isidoro, «piccole ciambelle di pane azzimo, bianchissime, e
panini a forma di X o di S, decorati con la punta di una forchetta», preparate
fino al 1957 dalle donne della frazione Testa dell’Acqua di Noto e, una volta
benedette, in parte consumate e in parte poste, «assieme ad un’immagine del
santo, alle pareti delle stalle, delle masserie, al capezzale del letto accanto
ad altre stampe devote»; e i panitti di Santu Vitu, che a Buccheri «venivano
offerti al Santo in cambio della protezione contro la pazzia e i morsi dei
cani».37
Sono insomma scomparsi pezzi importanti di cultura (materiale e spirituale) che
esaltavano la fantasia creativa delle nostre antiche donne rurali e di alcuni
artigiani di città. Ma non per questo è tramontata la tradizione di preparare
pani devozionali in certe ricorrenze festive. Anzi, in materia la Sicilia non
teme il confronto con nessun’altra regione d’Italia.
* * *
Non è certo il santo più amato dai Siciliani, San Martino. Ad Acireale è
ritenuto addirittura «protettore dei becchi, volontari e no». Nel resto della
Sicilia viene considerato patrono degli ubriaconi: «un protettore a cui non si
raccomandano, né hanno nessun riguardo. Un motto popolare conferma queste
relazioni: Cui si leva di vinu, dici: viva Sammartinu!»,38 cioè chi
alza troppo il gomito dice: viva San Martino. Di contro nessun timorato di Dio
nega in Sicilia che il Santo sia generoso. Qualcuno l’accusa semmai d’esserlo
troppo, specialmente quando si leva di vinu. Una volta che si era immedesimato
troppo nel ruolo di protettore dei beoni, a voler credere a certe malelingue
catanesi, «commise la grossa minchionata di far bene al diavolo» dandogli
nientedimeno «il mantello che aveva addosso».39
Con tutto ciò, sarà perché ogni anno il Santo regala un provvidenziale
supplemento d’estate nella stagione della semina, sarà perché il giorno della
sua festa ogni mosto diventa vino — e il vino, si sa, è indispensabile per
andare in paradiso —, sarà per qualche altra ragione misteriosa… fatto sta che
non c’è 11 novembre senza farina. Quel giorno si mangiano tonnellate di viscotta
di San Martinu, «che hanno la forma di un piccolo pane, la cui parte
appariscente è alla roccocò».40 Sono dolci devozionali che un tempo
si riffavano (sorteggiavano) in mezzo alle strade della vecchia Palermo «per un
grano».41 E si sorteggiano ancora nei mercati del Capo e della
Vucciria. Di più, se ne producono altri: un tipo «a forma di seno, simile a
quello che si confeziona a Licata; un altro più piccolo, come una pagnottella,
detto “Sammartinello”; e un terzo, ripieno di pasta di mandorla, conserva e pan
di Spagna imbevuto di liquore, ricoperto di una velatura di zucchero, confettini
argentati, cioccolattini, e riccamente decorato con fiori e ciuffetti di verde».42
Chi non amasse le cose troppo dolci può sempre ripiegare sui sammartinelli
imbottiti di ricotta e cioccolata. Oltre ai soliti biscotti di San Martino, «una
tradizione diffusa nel Belice vuole che si mangino appena sfornati dei pani di
forma tondeggiante (muffuletta), fatti di farina arricchita di semi di finocchio
e conditi con olio, formaggio, sale e pepe, di solito accompagnati dal vino
nuovo spillato dalle botti».43
Ma bisogna accostarsi ai siculi-albanesi di Palazzo Adriano per apprezzare il
bello della festa di San Martino.44 Nel pittoresco paesino del Sosio
l’11 novembre si respira una particolare atmosfera balcanica, caratterizzata da
«tante forme di solidarietà che la comunità albanese ha gelosamente conservato
per secoli».45 Quel giorno i genitori, i parenti e gli amici delle
coppie convolate a nozze durante l’anno regalano agli sposini provviste
alimentari, tanti oggetti di uso domestico e qualche volta anche carbone. A
regalare il braciere (bracera) è di solito la mamma della sposa. Alla suocera
spetta provvedere all’invio della scorta viveri; altri parenti e gli amici si
fanno invece carico degli utensili da cucina, dalla padella alla pentola. In
segno di augurio per un’abbondante proliferazione quest’ultima può essere anche
abbastanza grande e si chiama menzaranciu, se non è addirittura capiente quanto
il quadaruni che i pastori usano per la caseificazione del latte di un gregge.
Ma non un solo oggetto viene portato agli sposi direttamente dal donatore. Il
rituale vuole che questo compito sia delegato ai bambini ed è spettacolo molto
commovente vedere tanti angioletti parati a festa far le veci della Befana,
sotto lo sguardo soddisfatto dei grandi.46 Il pezzo più appariscente
è il cannistru. Si tratta di una grossa cesta adorna di fiori e fiocchi
colorati, con una bella tovaglia bianca ricamata, su cui viene posto ogni ben di
Dio: pasta, dolci, biscotti di San Martino, frutta di ogni tipo, secca e fresca,
tranne le mele naturalmente, che ricordano lo stramaledetto pomo d’Adamo, per
cui l’uomo deve sudare per guadagnarsi il pane. Dentro il cannistru splende,
come sole allo zenit, la pitta, che del sole evoca appunto l’immagine, rotonda
com’è. Ma non è altro che una semplice focaccia azzima o con poco lievito:
focaccia speciale, però, su cui sono stampigliati con un bollo (rigorosamente
identico al prototipo portato nel Quattrocento dall’Albania) tre cerchi
concentrici con tanti simboli dell’identità etnico-religiosa albanese: l’aquila
bicipite sormontata da una corona, due colombi ai lati di un cuore, un
ramoscello d’ulivo in un grande vaso, cani, uccelli, zirigori vari e un grosso
pesce. Il significato di molti di questi simboli è evidente.
Cos’altro potrebbero significare i due colombi (che fra l’altro sembrano
alimentarsi alle vene del cuore) se non l’amore? E i cani, se non la fedeltà
coniugale? E non era forse l’emblema di Giorgio Castriota, padre della patria
albanese, l’aquila bicipite? Ma tutto è chiaro nella pitta: dal ramoscello
d’ulivo, che simboleggia l’aspirazione alla pace dell’intera comunità, ai cerchi
concentrici in cui essa mostra di volersi rinchiudere per affermare la propria
identità culturale. E il pesce? Anche questo simbolo dovrebbe esser chiaro a
chi, almeno una volta nella vita abbia avuto modo di vederne uno stampato in una
catacomba o in un ipogeo frequentato dai primi cristiani: indica l’appartenenza
alle prime schiere dei seguaci di Cristo. Ma non solo questo, come dimostra
egregiamente Antonino Buttitta. Presso molte culture il pesce «è associato alla
nascita e alla resurrezione ciclica». Grazie alla «sua prodigiosa capacità di
riprodursi e al grande numero di uova che depone, è simbolo di vita e di
fecondità. Se il cristianesimo recupera l’immagine del pesce per il simbolismo
cui l’animale rimanda, in virtù del termine greco ichtus, le cui lettere sono
l’acrostico di Iesus Christos Theou Hyios Soter, ne fa una applicazione sua
propria come simbolo di Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore».47
Un altro santo particolarmente venerato dagli Albanesi di Sicilia è San Nicola,
vescovo di Mira, città dell’Asia Minore. Ad introdurne il culto in Occidente fu
nel X secolo Teofane, moglie bizantina di Ottone II, imperatore di Germania.48
In Sicilia il Santo cominciò ad esser popolare in epoca normanna, quando
affluirono nell’Isola e particolarmente nel Messinese nutrite colonie di
bachisericoltori greci. Anche per questo divenne protettore di molti paesi. La
popolarità del Santo è attestata da molte leggende e credenze. Una di questa
vuole che con tre soli panini abbia sfamato la città di Mira afflitta da una
terribile carestia. Per questo il suo culto è legato alla panificazione. «Nelle
case dove le donne fanno da sé il pane pel consumo della famiglia — scriveva
Pitrè —, si benedice appena si comincia ad impastare la farina. La benedizione
finisce invocando l’aiuto del nostro Santo affinchè il pane cresca ed ingrossi
fino a non capire più nel forno:
Santu Nicola
Facitila crisciri ’nsinu a fora.
Vi sono certi panuzzi di S. Nicola, che si mangiano o conservano per divozione,
e che si credono miracolosissimi nello spegnere un incendio, nel salvare da
grave pericolo imminente, nel ridar guarigione agli ammalati, ne’ gravi pericoli
di fulmini».49
Panuzzi di questo tipo si preparano il 6 dicembre a Chiusa Sclafani di cui il
Santo è protettore ed è ritenuto il tipo da farsi rispettare: «pretende dai suoi
fedeli il puntuale adempimento delle promesse fattegli».50 Nella
vicina Contessa Entellina, dove il culto fu portato nel Quattrocento dai coloni
albanesi, i panuzzi sono preparati dalle suore basiliane che li ricavano
«dall’unione di tre piccole forme rotonde che simboleggiano la Trinità».51
A Mezzojuso, altro piccolo centro del Palermitano dove si stabilì una colonia
albanese che mantiene come protettore San Nicola, il Santo è festeggiato con 9
giorni di preghiera (novena) nel corso dei quali «viene distribuito ai fedeli un
pezzetto di pane normale che viene benedetto durante la celebrazione religiosa.
Il mattino del 6 dicembre, invece, si portano in chiesa i panuzzi ri (di) Santa
Nicola che vengono benedetti e distribuiti ai fedeli, mentre in passato era il
sacerdote che si recava presso le famiglie a benedire il pane». Si tratta di
panini rotondi dal diametro di circa 5 cm, impastati in modo da risultare più
duri di quelli ordinari e ammorbiditi con spennellata d’uovo battuto. In alcuni
è stampata la scritta greca IE / XE / NI / KA per annunciare che «Gesù Cristo
vince»; in altri l’immagine di «S. Nicola benedicente, che reca, seguendo una
iconografia canonica, il pastorale della liturgia greca e tre panini». Gli
appositi bolli, conformi a quelli portati dall’Albania, sono custoditi nella
chiesa di rito greco. I tre panini del Santo simboleggiano quelli con cui gli
egli sfamò la città di Mira. «Ogni anno nella pregiata statua del Santo che si
venera nella chiesa di Mezzojuso, durante la funzione religiosa del 6 dicembre,
vengono sostituiti i tre panini».52
S’impasta farina anche per devozione all’Immacolata, la cui festa cade l’8
dicembre. A Palermo la vigilia si usa fare la «nottata» con una cena a base di
focacce con milza o ricotta e sfinciuni53 (specie di pizza spessa con
fettine sottili di cipolla, acciughe salate, caciocavallo a striscette, olive
nere snocciolate, salsa di pomodoro, origano, sale e pepe) e con interminabili
giocate a carte. I generi che si consumano la «nottata della Madonna» si trovano
tutto l’anno, ma non mancano mai sulle tavole dei Palermitani la sera del 7
dicembre. A Ciminna si usa invece preparare la’nfriulata, focaccia con ripieno
di salsiccia e cipolla, apprezzata pure nell’Agrigentino, nel Nisseno e nel
Trapanese, sia pure con nomi diversi (’mpriulata,’nfigghiulata). A San Giuseppe
Jato si mangiano focaccine con ricotta (vaconzi). Altrove la facci di vecchia,
pizza rustica che si faceva pure ogni volta che si panificava con gli avanzi
della pasta lievitata. Il nome «trova una precisa corrispondenza con l’analoga
pizza emiliana detta stria (strega): entrambe infatti, cotte vicino al fuoco
assumono una colorazione gialliccia e anemica, e per la grinzosità della
superficie ammaccata dai pollici, hanno la stessa origine simbolica, che
richiama il volto di una strega».54 A Burgio si mangiano muffuletti,
pagnotte molte soffici condite con olio, formaggio, filetti di sarda salata e
pepe.55 In molti altri comuni della Sicilia occidentale si preparano
i sfinci, «palle di farina lievitate e fritte».56 L’olio è
rigorosamente d’oliva, odorante ancora di frantoio. A Villafrati un proverbio
recita: ’un avi ogghiu e frii sfinci (non ha olio e frigge sfinci), per
stigmatizzare il comportamento di chi si concede lussi superiori alle proprie
possibilità.
Il giorno della festa di Santa Lucia nel Palermitano e in buona parte della
Sicilia non si mangia né pane né qualsiasi altro prodotto ottenuto con farina di
frumento. All’origine di questa devozione c’è una leggenda, secondo la quale,
durante una carestia, il 13 dicembre di un anno imprecisato sarebbe sbarcata in
Sicilia una nave carica di grano. In segno di ringraziamento alla Santa
misericordiosa, di cui ricorreva la festa, i Siciliani avrebbero deciso di
astenersi per quel giorno dal consumo del pane e di cibarsi di una minestra di
grano, detta cuccìa.57 Ma Santa Lucia, si sa, è anche la protettrice
degli occhi e sono tante le leggende che ne spiegano il motivo. Non possono
perciò mancare i pani che attestano le sue virtù taumaturgiche. A Modica il 13
dicembre si sogliono confezionare i cucciteddi, «sottili sfoglie di un
centimetro circa di diametro» che, «una volta benedetti, vengono distribuiti ai
fedeli, i quali li adagiano un attimo sulle palpebre chiuse e poi li mangiano o
li conservano in casa». Nella stessa città la panificazione casalinga spesso
comprende la preparazione degli uocci di Santa Lucia (occhi di Santa Lucia),
composto da due spirali. «Nel Siracusano — assicurava negli anni settanta
Antonino Uccello dal quale abbiamo attinto le informazioni relative a Modica —,
a Canicattini Bagni, nella chiesa del Purgatorio, detta comunemente l’Armi
Santi, vengono portati l’uocci di S. Lucia in un vassoio e vengono benedetti dal
parroco e poi distribuiti ai presenti, i quali lasciano un’offerta in denaro.
Questi pani votivi di forma di due spirali, a S, vengono appesi alla parete a
lato del letto, o conservati in un armadio»58 A Castellana Sicula,
oltre alla tradizionale cuccìa si preparano anche gli ucchiuzzi di pani,
«piccoli panini a forma di occhi». A Niscemi i cuddureddi, «biscotti preparati
in casa e donati alla chiesa di S. Lucia dove vengono benedetti e venduti ai
cittadini».59 A Collesano il 13 dicembre nella chiesa di Santa Lucia
viene celebrata una messa alle cinque del mattino, a conclusione della quale «si
offrono ai fedeli dei biscotti a forma di occhi realizzati dalle suore e da
coloro che hanno ricevuto delle grazie».60
Il Natale cristiano, com’è noto, si ricollega alla festa solstiziale dell’antica
Roma fissata appunto il 25 dicembre come «giorno natale» di tutte le divinità
solari d’Oriente per garantire l’unità dell’impero.61«Le origini
pagane del Natale sono accennate, se non tacitamente accettate, da S. Agostino,
quando esorta i confratelli cristiani a non celebrare quel giorno solenne come
pagani, in onore del sole, bensì in onore di colui che creò il sole. Allo stesso
modo Leone Magno condannò la perniciosa credenza che il Natale si solennizzasse
per via della nascita del Nuovo Sole, come era chiamato, e non per via della
natività del Cristo».62 Ma non c’erano appelli che tenessero di
fronte a una credenza così radicata. Prova ne sia che ancora al tempo di
Guastella, a Modica, il popolo si comportava come all’epoca delle feste pagane.
Basti dire che la notte di Natale nelle due chiese collegiate e in quella di S.
Maria di Betlèm uomini, donne, vecchi e fanciulli «durante gli uffizi
ecclesiastici» mangiavano in chiesa «a doppio palmento» e, tra una funzione e
l’altra, si davano «a imitare il canto delle pernici, delle quaglie, delle
tortore, de’ rosignuoli, a fischiar maledettamente cacciando in bocca due dita».63
L’atteggiamento orgiastico dei Modicani dell’Ottocento fu giudicato con severità
da Pitrè: «Se queste notizie non venissero dal Guastella, si stenderebbe a
prestarvi fede. Ma l’antica Contea di Modica, dopo le rivelazioni fatteci da
questo egregio letterato, ci apparisce con usi, credenze e costumi appena
credibili a’giorni nostri».64 Non si chiedeva però il perché,
l’illustre studioso. Né teneva conto che in quell’area il ritmo dell’esistenza
allora era più che mai in balia, direbbe Antonino Buttitta, «alla vicenda
sotterranea delle sementi, nell’attesa che la terra si apr[isse] a nuova vita».65
Alla luce di questa considerazione si spiega anche perché a Modica, almeno fino
agli ultimi anni settanta — ma forse ancora oggi — a Natale si preparassero un
pane che nel nome e nella forma evoca il nome del noto contenitore del frumento,
u cannizzu,e il cosiddetto ’uoi (buoi), altro esemplare natalizio, dal peso di
circa un chilogrammo, come il primo. Particolarmente interessante è la
simbologia del secondo tipo: «Il pane è ottenuto dalla congiunzione di due
elementi a forma di mezzaluna che rappresentano i due buoi aggiogati da un
cordoncino di pasta a treccia. Questo tipo di figurazione, inoltre, è piuttosto
diffuso e si trova a Buccheri, sugli alti Iblei, un centro agro-pastorale non
molto distante da Modica. Qui il pane assume, con variante fonetica, la stessa
denominazione di bbuoi, e riecheggia la medesima forma, solo che ai lati del
pane, si sogliono inserire delle nocciole».66 Nella stessa Buccheri
si preparano altri due pani natalizi: il cosiddetto ’nfasciateddu, che raffigura
un neonato in fasce e la cùcchia, cioè la coppia, che «risulta dalla
congiunzione di due elementi con le punte che si aprono come buoi». Si tratta di
un pane diffuso anche in altre parti dell’Isola e già citato da Pitrè anche col
nome di cùccia, che in fin dei conti significa coppia, copula. «Questa voce,
irradiatisi presumibilmente da Bisanzio ha avuto una diffusione non comune
raggiungendo da una parte l’Italia meridionale e dall’altra la Russia. La sua
fortuna è certamente dovuta al fatto che la cùcchia è un cibo rituale. […] ed è
desumibile, dato il suo carattere cerimoniale e l’evidente simbologia fallica,
la sua connessione coi riti di propiziazione per la fertilità e la buona
annata».67 Fra l’altro non è un caso che tra i pani natalizi di
Buccheri ce ne sia uno raffigurante un bambino in fasce. Se a ciò si aggiunge
che il sesso femminile in alcuni paesi si chiama, appunto, cùcchia, non ci
possono essere più dubbi circa la simbologia sessuale di questi pani natalizi
della Sicilia orientale.
A ben riflettere, i simboli della sessualità ritornano in tutta la loro evidenza
anche nei dolci natalizi a base di farina e miele diffusi in molti comuni
dell’Isola, non solo perché qualcuno di essi come la favuzza (favetta) allude
chiaramente al fallo, ma anche in considerazione del fatto che quelli destinati
ai bambini presentano una chiara distinzione sessuale. Si chiama infatti pupa
(bambola) quello destinato alle femminucce e cavadduzzu (cavallino) quello
preparato per i maschietti. Né vengono meno, i simboli dell’accoppiamento,
quando i dolci col miele prendono forme e nomi differenti.
Molti sono i dolci votivi a base di miele che si preparano durante tutto l’anno.
A Natale, con l’inizio dell’anno liturgico, si usa tuttora preparare il torrone
di mandorla, la più pregiata della quale è quella di Avola, che appunto si
presta benissimo alla confezione di confetti e di torrone a base di miele.
Leonardo Sciascia ha scritto: — Con tanta abbondanza di mandorle, ad Avola
prospera la produzione dei confetti e del torrone. Il quale è prodotto in due
tipi: bianco e caramellato, più docile al coltello e ai denti il primo, più duro
e quasi vetrino il secondo. La differenza a quanto pare consiste nella
lavorazione più e negli ingredienti meno. Forse nel primo ha parte più
importante il miele, che ad Avola se ne ha di ottimo…— . A base di miele si
prepara, ad Avola e dintorni, anche la ghiugghiulena, un impasto di sesamo e
miele. Biscotti di farina e miele si preparano in tutto il Siracusano per la
ricorrenza di Natale. Sono quelli che ad Avola hanno forma o della lettera S o
di spirale e vengono chiamati mustazzòla, a Noto pasti ri meli,, a Sortino
piretti, perché hanno forma di piccole pere con all’interno frammenti di
mandorla abbrustolita. A Noto e nel Modicano si confezionano rami ri meli, dolci
dalla forma di ramoscelli fatti con farina e miele. Questi dolci, che negli
ingredienti ricordano quelli che nel Palermitano si preparano in occasione della
festa dei Santi Cosma e Damiano, vengono dati ai bambini per la strina, cioè
come strenna di Capodanno. Esiste infatti ad Avola un detto che i bambini
ripetevano ai parenti:
Bon capudannu e bon capu ri misi,
i mustazzòla unni sû mmisi?
(Buon capodanno e buon capo di mese, / i mostacciuoli dove sono messi?). I
mustazzòla ri meli sembrano diretti discendenti dei dolci di cui parla Teocrito
nell’idillio XV, meglio conosciuto come — Le Siracusane —. Riporto i versi di
Teocrito nella tradizione siciliana che recentemente ne ha fatto il poeta netino
Gaetano Passarello;
’Nta li maiddi tanti fimmineddi
’mpastanu ccu farina rosi e ciuri,
ccu ogghiu e meli e tanti pampineddi,
e tuttu a gloria di stu gran Signuri.
(Nelle madie tante donnette / impastano con farina rose e
fiori, / con olio e miele e tante erbe aromatiche, / e tutto a gloria di questo
gran Signore).
Sempre a Natale a Modica si preparano i nucàtili, con miele, farina, fichi
secchi e noci tritate avvolti in una sottile sfoglia di pasta. Altro dolce
natalizio a base di miele è la pagnuccata, fatta con farina e uova. Tipici del
Modicano sono i dolci natalizi a base di miele che vanno sotto il nome di
citrata o aranciata […] Nel Ragusano si usa preparare le palmette, dolci a base
di farina mescolata con mandorla tostata e triturata e miele. Si fanno dei
romboidi, un po’ schiacciati, che vengono cotti al forno.68
Pur in presenza di una così grande ricchezza espressiva, non è difficile
rintracciare in tutti questi dolci natalizi a base di miele un’unità
significante di un comune sistema di comunicazione non verbale. Nel caso della
aranciata o della citrata di Modica, dette pure petrafennula, ciò che più
colpisce, oltre alla proverbiale durezza, è la forma cilindrica, simbolo fallico
per antonomasia.69 Ma anche certi dolci fitomorfi come le palmette di
Ragusa — evocativi della pianta sotto cui si rifugiò la Vergine durante la fuga
in Egitto — sotto la superficie di grande candore, nascondono un significato
sessuale, ove si consideri che la palma era simbolo di fertilità e immortalità
presso gli antichi Egizi e che nella Puglia dei nostri giorni un dolce a forma
di palma è oggetto di dono dal fidanzato alla fidanzata, la quale valuta la
grandezza dell’amore del promesso sposo in base all’altezza dell’albero-dolce.70
L’argomento decisivo è tuttavia un altro: tutti i dolci natalizi a base di miele
in Sicilia sono eredi dei mylloi di classica memoria, anche quando non assumono
forme spudorate come quelle delle feddi di Cancilleri, dolci festivi che
«continuarono ad esser prodotti per secoli dalle brave quanto ignare suorine
della Badia del Cancelliere di Palermo».71 Fossero ancora pochi
questi argomenti, si può sempre riflettere sul fatto che nei matrimoni del
passato in molti comuni siciliani le amiche offrivano, a termine del corteo
nuziale, abbondanti cucchiate di miele alla zita. «In Piana de’Greci e nelle
altre colonie siculo-albanesi la suocera stava aspettando all’uscio la nuora per
porgerle un cucchiaio di miele…».72
Oltre a quelli al miele, in Sicilia nel periodo natalizio si preparavano altri
dolci, che in origine erano pani dolcificati con frutta secca, come mandorle,
noci, uva passa e soprattutto fichi secchi. I nomi variano da comune a comune
(cucciddata, gucciddata, vucciddata, peddizzati, luni, ecc.). In qualche comune
questi dolci vengono messi in mostra, accanto al Presepio, in apposite sagre del
periodo natalizio. Una sagra del Buccellato si svolge a Giardinello, nel
Palermitano, e una del Peddizzatu a Nicosia.73
C’è infine un pane, tutto locale di Burgio (Agrigento), che probabilmente merita
qualche considerazione in più. Si chiama cacocciula e viene donato ai bambini
nel periodo natalizio: è un «panetto semplice che nella forma vorrebbe
somigliare ad un carciofo».74 Il suo nome e la sua forma sono
casuali? Forse. O forse no, alla luce di un’informazione passataci da
Pitrè: «La notte di S. Giovanni qualche zitella suol mettere nel forno ancor
caldo uno di questi carciofi quasi secco, ritenendo che se al mattino lo troverà
ravvivato, questa sia per lei la certezza che andrà a marito (Avola)»75.
Insomma, comunque la si rigiri, quando si parla di pani e dolci natalizi, si
ritorna come un’ossessione al sesso. Ma, per la verità, l’argomento si ripropone
anche per altri pani votivi. Nel caso specifico si può aggiungere con Buttitta
che «il carciofo e il cardo trovano utilizzazione in alcune pratiche che
rimandano all’accoppiamento dei sessi e dunque alla riproduzione». La ragione
per cui la cacocciula a Burgio viene donata ai bambini va forse ricercata nel
fatto che essa allude «all’evoluzione della vita».76
Tra gli altri pani preparati per voto ai santi, Antonino Uccello ricorda quelli
che si confezionano a Palazzolo Acreide in occasione della festa di San Mauro
(15 gennaio). Sono ciambelline di diverse forme e i cosiddetti Vastunedda di
Santu Mauru, piccoli pani di circa 5 cm di lunghezza, a forma di bastoncini a
stampella. «Questi pani votivi vengono offerti a S. Mauro per propiziare la
guarigione dei dolori in genere, ma soprattutto di quelli reumatici e
artritici».77
I pani di San Biagio, la cui festa ricorre il 3 febbraio sono ritenuti
portentoso rimedio contro le malattie della gola. Questa credenza affonda le
radici in una leggenda che vuole il santo taumaturgo esser stato nominato
vescovo dopo aver liberato un bambino da una brutta spina di pesce che gli si
era conficcata nella gola. Pitré cita i cannaruzzeddi di San Brasi,
«piccolissimi pani che si pretende abbiano forma di gola […] Su’quali in molti
paesi cade la benedizione di qualche sacerdote».78 Antonino Uccello
ne documenta altri: i cuddureddi di Palazzolo Acreide, ’a cudduredda e il
vastuni i S. Brasi di Buccheri, i cuddureddi di S. Biagiu nel Catanese, li
cuddureddi biniditti di Racalmuto, dove quel giorno per devozione non si mangia
altro pane. Questi ultimi sono di due tipi: «in forma di cannaruozzu, trachea, o
di barba, cioè a coda di rondine, che vengono appunto chiamati varba di S.
Bilasi».79 Antonino Cusumano ne cita altri e si sofferma sui
cavvadduzzi «che si eseguono a Salemi, nel ricordo di un miracolo compiuto dal
Santo che liberò il paese dall’invasione delle cavallette». Ne descrive il
metodo di preparazione e l’uso che se ne continua a fare: «L’impasto composto di
farina di grano tenero e senza lievito, si lavora con aghi e mucàcia e le figure
modellate (animali e frutti) sono curati nei particolari come preziosi cammei.
C’è ancora chi li porta al collo per preservarsi da infiammazioni alle
tonsilli».80
La tradizione è ancora più radicata in alcuni paesi della provincia di Messina
come Militello Rosmarino e Caronia. Di quest’ultima cittadina San Biagio è il
protettore e come tale è festeggiato due volte: il 3 febbraio e la seconda
domenica di agosto: «I festeggiamenti iniziano con il giro della banda musicale
per il paese e la raccolta delle offerte, e si concludono con la processione del
Santo. Durante la messa il prete celebra la benedizione della gola, incrociando
al collo dei fedeli due candele benedette e invocando la benedizione del Santo.
Si benedicono anche i “cudduredda”».81 Ancora negli anni settanta
questi panini benedetti venivano portati anche nelle capanne (pagghiara) dove i
carbonai risiedevano per mesi con la famiglia e festeggiavano l’amato patrono
assieme ad altre famiglie di carbonai nelle radure dei boschi accanto alle
carbonaie (fussuna).82 Anche a Militello Rosmarino la festa di San
Biagio si fa due volte l’anno: il 2 e 3 febbraio e il 24 e 25 agosto.
Particolarmente suggestiva è la prima giornata, caratterizzata da una
processione di contadini che tornano dai boschi recando come trofeo un grosso
ramo di alloro (rama) adorno di nastri, fiori e pani. I quali, a un certo
momento si mettono a lanciare panotti all’indirizzo dei «fedeli radunati in
piazza».83 Meno spettacolare, ma pur sempre interessante, è la festa
di San Biagio a Calcarelli, frazione di Castellana Sicula, dove vengono
benedetti i panuzzi votivi e la gola dei devoti del Santo.84 A Prizzi
il 3 febbraio non si preparano pani, bensì «taralle ripiene di crema, le quali
sono successivamente infilzate nel bastone di San Biagio».85
Sant’Agata è raffigurata da una stampa pubblicata da Pitrè fra due carnefici che
le strappano il seno con due grandi tenaglie, recante la scritta: S. AGATA V. E
M. PANORMI86 (Sant’Agata Vergine e Martire di Palermo), che la dice
lunga sull’antica disputa fra Palermitani e Catanesi che si contesero a lungo il
protettorato della Santa. La vicenda si concluse con un compromesso: nativa di
Palermo, Agata sarebbe stata martirizzata a Catania, città di cui divenne
indiscussa protettrice. Ma la disputa non si è mai conclusa del tutto, dal
momento che i Catanesi sostengono che la Martire sia loro concittadina fin dalla
nascita. Su una cosa però tutti i devoti di Sant’Agata sono stati sempre
d’accordo: alla gloriosa martire furono strappati entrambi i seni e perciò
nessun’altra santa poteva assolvere meglio di lei al ruolo di guaritrice delle
malattie mammarie. Da qui la tradizione, tuttora onorata in molte parti della
Sicilia, di preparare nei primi giorni di febbraio dei pasticcini tipici, detti
minni di Virgini, «cassate ripiene, a imitazione del seno femminile, ricoperte
con glassa di zucchero e decorate a volte con una ciliegia candita».87
A Palermo i curiosi pasticcini erano preparati fino a una ventina d’anni fa
dalle suore del monastero di Santa Caterina.
Tra gli altri pani e dolci votivi Uccello cita quelli preparati in occasione
delle feste di Santa Febronia, patrona di Palagonia, la cui festa è celebrata
solennemente il 25 giugno, quelli di San Pietro e quelli di San Paolo. Alla
Santa palagonese sono ancora oggi dedicati due tipici pani: «uno a forma di
mano, con farina, uova e zucchero; e un altro, di pasta di pane, che simboleggia
un gallo».88 In proposito è appena il caso di notare che il gallo è
simbolo del fuoco e animale solare che con il suo canto annuncia l’alba. «Per
questo veniva posto sui campanili come annunciatore della luce e delle preghiere
del mattino».89 La mano, di colore particolarmente scuro, si prepara
ad imitazione di quella della Santa che si conserva come una reliquia a
Palagonia.
In occasione della festa di San Pietro, a Palermo, nel Partinicese, a Sciacca, a
Modica e in qualche altro comune vengono confezionate le tradizionali chiavi di
S. Pietru citate da Pitrè: «Verso la metà di giugno si cominciano a vender per
Palermo, sparse e ammonticchiate sopra tavole e canestre, chiavi di pasta melata
(di meli), di pasta e mandorle abbrustolite (sussumela), di torroncino, di
cannella e di altro dolciume […] Vi sono chiavi di mezzo metro, anche d’un
metro, che si portano sopra tavolette. La gridata per lo spaccio delle chiavi è
tradizionalmente questa: Chi l’haju bedda grossa la chiavi… haju la chiavi
grossa!». La simbologia fallica del dolce di San Pietro traspare dalle stesse
parole del venditore che ne reclamizza in vernacolo la grossezza, ma soprattutto
dal fatto che il fidanzato la regalava alla futura sposa in ossequio «a un
dovere di galateo amoroso».90
Lo stesso giorno della festa di San Pietro (29 giugno) a Palazzolo Acreide si
festeggia San Paolo. I devoti della zona offrono al Santo una grossa cuddura,
«ciambella su cui vengono rilevati, con la stessa pasta, dei serpenti». Gli
occhi del rettile sono realizzati con chicchi di veccia o di pepe nero; la
lingua con una strisciolina di carta rossa. «Mentre i fedeli dei paesi limitrofi
portano questi pani direttamente in chiesa, e li depositano in sagrestia, con
offerte anche in denaro e con mazzi di spigo, in paese vengono invece raccolti
da un carro tirato a mano da ragazzi e accompagnato dalla banda musicale. Come
in passato, ancora oggi questi pani, adorni anche con un nastro rosso, vengono
venduti all’incanto nella sagrestia e il prezzo medio è sempre superiore a
quello del pane comune…».91 La forma del serpente rilevata sulla
cuddura rimanda ad un prodigio di cui fu protagonista l’Apostolo, dopo il suo
naufragio a Malta:
Paolo avendo raccolto un fascio di legna e gettatolo sul fuoco, una vipera, per
effetto del calore, schizzò fuori e si avventò alla sua mano. Quando gli
abitanti videro pendere dalla sua mano quel rettile, dissero fra di loro:
«Costui dev’essere certo un omicida, perché scampato al naufragio, la giustizia
non vuole che sopravviva». Paolo scosse il rettile sul fuoco e non ne risentì
alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo cadere morto sull’istante; ma
dopo avere atteso a lungo, vedendo che non gli veniva alcun male, mutarono
parere e dissero che era un dio.92
Per tale ragione si crede che questi pani preservino dai morsi delle vipere e
dai cani idrofobi, da cui sarebbe rimasta al riparo Malta — secondo una leggenda
—, dopo il naufragio dell’Apostolo. A Cocullo, in Abruzzo, «sono i pani
benedetti di S. Domenico quelli che preservano dai morsi dei cani rabbiosi e da
quelli velenosi dei serpenti “cervoni”, i più grossi colubri d’Europa».93
Restando nel Siracusano, in occasione della festa di S. Sebastiano, ad Avola e
Melilli, si preparano grandi quantitativi di pani azzimi (cuddureddi) che
vengono gettati all’indirizzo della statua del Santo in processione.94
Ma i veri trionfi dei pani votivi sono altri.
* * *
Nell’immaginario collettivo del popolo siciliano San Giuseppe è sempre stato il
Patriarca, il più premuroso padre dei giovani, protettore degli orfani e delle
ragazze da marito, nume tutelare dei vinti della storia, tramite esclusivo della
Divina Provvidenza.95 Dall’alto di questo prestigio il padre putativo
di Gesù si è conquistato il protettorato di non pochi comuni rurali. «Dei santi
il più carezzato patrono è San Giuseppe […] Gli altri santi gli vengono dietro a
grande distanza, compresi S. Giovanni Battista, S. Niccolò di Bari, S. Giorgio,
S. Vito, S. Lucia». A fare questa graduatoria fu Pitrè.96 Salvatore
Salomone Marino, che di campagne s’intendeva più di Pitrè, non la pensava
diversamente, anzi andava oltre: «San Giuseppe vale più del Padre Eterno, di
Cristo e della Madonna presi insieme».97 Per Guastella il Patriarca
era «il più simpatico fra tutti i Santi, quello che è venerato dal popolo con
culto e devozione più schietta».98 Non può quindi destare meraviglia
se la sua festa ha sempre registrato l’entusiasmo popolare:
Una delle feste più universali, più simpatiche, più accette
al popolo è quella di San Giuseppe, e, perché universale, varia in molte guise.
In Chiaramonte c’è il banchetto di nozze, in Francofone la lotteria dei doni, in
Siracusa s’incendia la barca più vecchia, in Modica, tutta quanta la ragazzaglia
dell’uno e dell’altro sesso, divisa in processione di cento o duecento, e
preceduta ognuno dall’indispensabile tamburo, scuotono in mano le fiaccole, e
percorrono le vie schiamazzando di gioia. In Rosolini la festa è un pretesto per
disfarsi dei cavalli, e dei muli avariati, imperocché i padroni fittano quei
loro animali ai procuratori della festa, onde raccogliere i cereali che si
regalano al Patriarca, e caricano in siffatta guisa quelle povere bestie, che è
una afflizione a vederle. Or quei dei comuni vicini, che si trovano lì, vedendo
quell’enormità di soma, spesso si lasciano abbindolare, e comprano a occhi
chiusi. In Santa Croce la festa ricorda l’ospitalità orientale; né c’è
terrazzano, che non si creda onorato, accogliendo in propria casa qualcuno dei
numerosi devoti, che piovono dai paesi limitrofi; né c’è casa che non ne ospiti
qualcuno, anche a via di risse se occorre; né c’è mendicante che non venga
disputato da questa o da quell’altra famiglia; nè c’è famiglia per quanto
povera, che non faccia del suo meglio onde accogliere il viandante, che ha
mandato lo sposo della Vergine Santa. In Scicli è un altro paio di maniche. Li,
come in molti paesi, c’è un uomo che ha l’impiego di S. Giuseppe. Or nella sera
della vigilia il popolo tutto quanto, invaso da sacro entusiasmo, afferra il
Patriarca, lo sospinge a furia di braccia, lo pone a cavalcioni di un asino e lo
costringe a correre per tutte le vie e viuzze del paese, preceduto e seguito da
immensa caterva di villani e di operai, chi a cavallo, chi a piedi, ma tutti con
le fiaccole in mano, tutti urlanti e fischianti, tutti in corsa vertiginosa.
Ovunque passi la stranissima processione si spalancan le porte, si aprono le
finestre, sporgono i lumi, ed è un ricambio di grida di entusiasmo tra quei che
corrono, e quei che li vedono correre. In ciascuna delle vie, e dei chiassiuoli
e degli angiporti sono accesi falò che tramandan luce vivissima, che dan l’idea
di un incendio. Intanto il Patriarca grida come un ossesso che sta per cadere,
che gli saltano le budella, che ha le vertigini al capo: ma il popolo non se ne
dà per inteso, anzi invece di punzecchiar l’asino, che non ne ha bisogno,
punzecchia maledettamente il povero Santo in tutte le parti del corpo; e mentre
uomini e donne strillano in tutti i tuoni e i semituoni della scala cromatica
Viva San Giuseppe! Viva lu spusu ri Maria Virgini! Viva la culonna ri la Santa
Criesia!, San Giuseppe urla e bestemmia come un ariano; e, terminata la corsa,
sta per parecchi giorni ammalato.99
Sono passati centoventicinque anni da quando Guastella descriveva così le feste
di San Giuseppe nel Circondario di Modica ed è, perciò, naturale che molte
tradizioni siano tramontate. Nessuno si presta più a fare «l’impiego di San
Giuseppe», che non si esauriva nel giorno della festa del Santo: era un vero e
proprio mestiere che si esercitava a vita e veniva finanziato con i contributi
della comunità. Ma la devozione al Patriarca è ancora grandissima nei paesi
citati da Guastella. A Scicli, per esempio, la vigilia della festa è ancora oggi
caratterizzata da una cavalcata e dai falò ai crocicchi. La prima, dicono gli
Sciclitani, si ispira all’episodio evangelico della fuga in Egitto. I più colti
aggiungono che il rito vuol celebrare la fine dei rigori invernali e il
risveglio della natura e nello stesso tempo intende propiziare un abbondante
raccolto. Che questo sia il vero significato, appare chiaro dalle modalità di
svolgimento delle manifestazioni: «I cavalli sfilano in serata bardati con
violaciocca dai colori accesi e dai profumi intensi, montati da un personaggio
in costume tipico. Seguirà la sfilata una premiazione per la migliore bardatura.
In vari quartieri, ai crocicchi delle strade, vengono preparati i cosiddetti
“pagghiara” o “vamparigghi”, cioè delle cataste di legna, di frasche e
masserizie che una volta venivano accese al passaggio della Sacra Famiglia per
rischiarare ad essa il cammino, in ricordo di ciò che, secondo la tradizione
popolare, fecero i pastori quando la Sacra Famiglia fuggì dall’Egitto. Questa
tradizione si è ormai snaturata e i falò sono divenuti più che altro motivo per
raccogliersi e banchettare con carne e salsicce arrostite sulla brace».100
Non c’è spazio in questa sede per svolgere un’attenta riflessione su questo
snaturamento di un rito d’origine pre–misterica rifunzionalizzato dal
Cristianesimo. Ai nostri fini è sufficiente notare che la componente orgiastica
ai tempi del Guastella si esplicitava nei termini carnascialeschi tipici della
Contea di Modica,101 e che adesso si manifesta con una maggior
compostezza di facciata, che tuttavia non riesce a nascondere il livello
agrario-ctonio in cui affonda le radici.102
Anche a Santa Croce Camerina è ancora fortemente sentita la festa di San
Giuseppe, dei cui precedenti ottocenteschi disponiamo, oltre che delle
informazioni di Guastella, anche di un resoconto particolareggiato di Pitrè,
costruito con una ricerca sul campo (come oggi si dice) fatta dal «raccoglitore
signor Giovanni Cannizzaro», che gli inviò anche il testo vernacolare di una
«leggenda in poesia» che si cantava sotto forma di orazione «nella novena in
onore di San Giuseppe».103 Allora come adesso s’imbandiva una
sontuosa mensa, per ricevere, in onore del Patriarca, della Madonna e di Gesù,
della Sacra Famiglia, insomma, i cui personaggi erano un tempo scelti tra i
poveri del paese.
«Una tavola che meriti la considerazione dei visitatori —
scriveva Pitrè — non può mancare di tre, quattro enormi buccellati coi
rispettivi pasticci di spinaci (pastizza di spinacia), di un’arancia, di un
finocchio e di un gruzzoletto di lire […] Poi, disposti con una certa simmetria,
una infinità di piatti di tutti i colori e forme contenenti verdure cotte:
amareddi, scramizzatura, mataluchi fritti, fave, ceci, avellane, mandorle
abbrustolite, nigghi scuzzulati arrustuti e sgriddati; biscotti di tutte le
maniere, firrincozza, mustaccioli, mustata, marmellata, zuccata, frutte di
zucchero, datteri, anguille, melograne, carciofi e non so quante altre primizie,
che costano un occhio. Da una parte pende un gran fazzoletto di seta a colore, e
nel mezzo un quadro della Sacra Famiglia accesivi innanzi dei lumi in candelabri
di stagno».104
Poco è cambiato a Santa Croce di quest’apparato celebrativo, tranne il fatto che
le «cene» sono diminuite per mancanza di poveri, nell’accezione antica del
termine. Tuttavia, «non pare diminuisca anche tra le nuove generazioni la
necessità di ricorrere a queste pratiche di rassicurazione».105 Nella
ridente cittadina della fascia costiera ragusana la devozione al Patriarca
accomuna vecchi e giovani, adulti e bambini, residenti ed emigrati della terza
generazione. «Di solito — notava Antonino Uccello —, chi ha sciolto un voto o
ricevuto una grazia, dà inizio al rituale col primo venerdì di marzo, quando si
procede a seminare u lauri, cioè il grano (i cosiddetti “giardini di Adone”),
che si tiene al buio e s’innaffia abbondantemente, operazione ritenuta
indispensabile alla preparazione della “cena”. Già una settimana prima si
cominciano a confezionare alcuni cibi da disporre nella lunga tavola: per ogni
voto bisogna eseguire tre grandi ciambelle di pasta, dette ucciddati, di circa
sette o otto chili ciascuna, destinate ai tre poveri che rappresentano Gesù,
Giuseppe e Maria».106 Queste ciambelle e gli altri pani della cena un
tempo si cuocevano nei forni domestici (e si credeva che a certe operazioni di
cottura assistesse come supervisore lo stesso Patriarca; «e guai se Egli non
restasse contento! Ché il pane diventerebbe nero e carbonizzato»). Adesso si
ricorre ai forni pubblici. La tavola si comincia ad apparecchiare il 17 marzo.
Ma non si può toccare nulla se prima non mangiano i tre poveri, detti localmente
santi (altrove virgineddi, vicchiareddi ecc.).
La mattina della festa si spigna la cena, «si toglie cioè il primo cibo della
tavola apparecchiata per donarlo al Patriarca, da vendere in piazza all’incanto:
di solito la raccolta si fa da parte di una deputazione, accompagnata dalla
banda musicale […] Intanto la donna che ha fatto il voto prepara il bastone del
Patriarca, di solito in legno di oleastro, disponendovi in cima delle arance
amare con foglie verdi, nastri e l’immaginetta di San Giuseppe. I tre “santi”
con una corona di alloro sul capo, tenendosi per mano, come nell’iconografia
canonica, si recano in chiesa per la benedizione, accompagnati da un gruppo di
musicanti e dalla donna che ha promesso la “cena”, la quale di solito segue la
processione a piedi scalzi. Quando dalla chiesa si fa ritorno in casa per
consumare i cibi imbanditi, già la marcia della banda musicale avverte i
familiari che sprangano la porta di casa. Si bussa tre volte all’uscio da parte
dei “santi” e nessuno risponde, finché l’ultima volta il “Patriarca” dice:
Gesù, Ggiseppi e Maria,
o rapi tu, o rapu iu!
(Gesù, Giuseppe e Maria, / o apri tu, o apro io!). A questa intimazione le porte
si aprono: appena entrati, i “santi” si lavano le mani con latte e vino, quindi
il San Giuseppe impartisce la benedizione».107
Le feste di San Giuseppe non sono le stesse in tutta la Sicilia. La sola cosa
che hanno in comune è la presenza del pane benedetto che in certi paesi si
distribuisce al popolo senza la presenza dei santi, virgineddi, o vicchiareddi
che dir si voglia. Lo stesso nome del banchetto cambia da realtà a realtà
(tavulata, mensa, ammitu, tavula, cummitu, ecc.). Ma qualunque sia il suo nome,
il banchetto è generalmente preparato per iniziativa di privati che hanno fatto
un voto nel quale, nella maggior parte dei casi, è compreso l’impegno di farsi
carico anche di una pubblica questua. Protagoniste indiscusse della raccolta
sono le donne. «Ad Alcamo la questua della donna serve, oltre che
all’allestimento dell’altare, anche a costituire un fondo che sarà poi devoluto
ad istituzioni pubbliche, un retaggio forse della zakãt, la beneficenza prevista
dal Corano tra i fedeli musulmani. Come gli eroi delle favole popolari, il cui
schema spesso prevede una temporanea sconfitta del protagonista prima della
vittoria finale, la donna trarrà dalla sua umiliazione grande motivo di
prestigio personale».108
Per antica tradizione le cene di Salemi «sono figurativamente assimilabili —
come vuole la rappresentazione popolare — a “chiese” o più raramente “grotte”,
al cui interno si erge l’altare dedicato al Santo. Sono rivestite interamente di
mirto e alloro e adorne di pani, arance e limoni. Per allestirle si libera una
stanza e si monta una intelaiatura di assi di legno, ferro e canne. Il ferro
viene usato per sostenere le colonne e la parte inferiore della cupola che si
completa con archi di canna. Le colonne, la cupola, le cappelle sono elementi
architettonici costanti. Il disegno generale e le dimensioni, il modo di
arabescare le pareti laterali della cena, cioè di intrecciare le bacchette a mò
di cerchio, di triangolo e di rombo, variano da una cena all’altra. Innalzato lo
scheletro, se ne rivestono le varie pareti con il mirto, a murtidda, a eccezione
delle cappelle che debbono essere decorate, ancora oggi, con fronde di alloro».
In occasione della festa 2001 la cena della Pro-loco, riproducente lo schema
architettonico della Matrice distrutta dal terremoto del 1968, è stata allestita
dentro la chiesa di San Giuseppe da anni chiusa al culto. Ma sono i pani il vero
spettacolo della festa di San Giuseppe di Salemi. Pani che si possono ammirare
persino nelle vetrine dei negozi.
«Elaborati dalle sapienti mani delle donne, i pani si presentano nelle più
svariate forme. I principali simboli rappresentati sono quelli della tradizione
cristiana, come il pesce, o i simboli della pentecoste, cioè la scala, la
tenaglia e i tre chiodi. Oltre a questi, di chiaro riferimento religioso, le
altre forme rappresentate fanno riferimento alla natura: così sono realizzate
forme d’animali, di piante e di fiori. L’altare si compone di tre o cinque piani
degradanti, nel primo dei quali va posto “lu cucciddatu”, destinato al bambino
Gesù. Contornano “lu cucciddatu” a destra una brattea di palma e a sinistra il
bastone di San Giuseppe con un grande giglio. Sul gradino che segue sono esposti
dei pani più piccoli, che rappresentano i credenti, ed infine un ostensorio
contornato da due angeli. Ogni altare è decorato con spighe di grano, mirto,
alloro, agrumi e piccoli pani dalle più svariate forme».109
Con tanta abbondanza di pani figurati, si stenta a credere che nelle cene di
Salemi ne compaiono molti altri. Eppure è così. Ecco quelli che abbiamo avuto
modo di riscontrare nella cena della frazione Pusillesi:
La Croce, segno di salvezza; la Corona di spine che fu messa sul capo di Gesù
durante la passione; il Martello con cui fu inchiodato Cristo; la Canna con la
spugna in punta per darGli fiele e aceto; la Lancia che gli trafisse il Costato;
le Scale usate per togliere il Crocifisso dalla Croce; il Sole e la Luna che
illuminano il firmamento, le Aquile, simbolo della forza; l’Uccellino reale,
simbolo di diligenza; la Colomba che simboleggia la pace; il Pavone segno della
resurrezione di Cristo; le lettere G, M, G, iniziali di Gesù, Maria e Giuseppe;
le Forbici, la Rocca e il Fuso, simboli della laboriosità di Maria; l’Ascia e la
Sega, attrezzi di lavoro del Patriarca; il Fraticello (noto come Santu Patri)
raffigurante San Francesco; i Cuoricini, simboli d’amore; il Cavallo, simbolo
d’intelligenza; il Cane, simbolo di fedeltà; gli Uccellini e le Farfalle, segni
di aspirazione al distacco dalla terra; Pani in forma di frutta, simboli di
abbondanza, Pani ordinari, segni della Grazia di Dio; le Fave, simbolo della
generosità di San Giuseppe (sostengono i padroni della cena). Tutti questi
simboli sono interamente riprodotti anche nei pani maggiori,110 di
cui vale la pena di aggiungere qualche ulteriore spiegazione.
Lu Cucciddatu, dal peso di circa 7 chili, contiene inoltre la camicina di Gesù,
segno di povertà, il gelsomino (che era il suo fiore preferito), il sudario in
cui fu avvolto dopo la crocifissione e, naturalmente, anche la lettera G,
iniziale del suo nome. La Palma contiene l’iniziale di Maria, le rose, simbolo
di purezza, il fiocco, segno di castità. Questo pane è destinato alla sposa del
Patriarca perché «durante la fuga in Egitto la Sacra Famiglia attraversando la
Palestina, si fermò sotto una palma per riposarsi; allora avvenne il miracolo
poiché, avendo fame Maria e Giuseppe, la palma si chinò, Maria raccolse i
datteri e poco dopo la palma si rialzò». Lu Vastuni è coronato da gigli, che
rappresentano la purezza del Patriarca, del cui nome è anche impressa la lettera
iniziale. Circa le diverse dimensioni dei pani, non è superfluo darne una
spiegazione con le parole dei dirigenti dell’Associazione Pusillesi: «I tre pani
grandi rappresentano la grandezza di Dio, i tre pani piccoli rappresentano il
popolo, la spera (ostensorio) rappresenta il corpo di Cristo nel momento
dell’adorazione; il calice rappresenta il corpo di Cristo nel momento della
comunione».111 La mensa simboleggia l’ultima cena di Gesù con gli
Apostoli. In essa compaiono anche i giardini di Adone, fiori al naturale e una
bottiglia di vino.112
Gli organizzatori delle cene di Salemi si fanno inoltre carico
di preparare un pranzo di 101 pietanze a base di cereali, verdure, pesci,
frutta, uova, dolci. Dopo la benedizione dell’altare e dei pani, il cibo è
offerto ai tre santi (tre bambini che impersonano la Sacra Famiglia), i quali
hanno anche diritto di portarsi a casa u cucciddatu, la palma e lu vastuni, in
base al ruolo ricoperto. Il primo spetta a Gesù, la palma a Maria e lu vastuni
al Patriarca. Gli avanzi, che generalmente sono molti, vengono distribuiti ai
visitatori che hanno visto mangiare i santi, scandendone i bocconi con sonori
applausi e grida di gioia: «Viva Gesù, Giuseppe e Maria, viva!».
L’ostentazione di tanta abbondanza indurrebbe a pensare che la società
salemitana del passato fosse particolarmente agiata. Ma non è affatto vero: «In
tempi di povertà reale di una società contadina attanagliata dalla insicurezza e
dalla precarietà esistenziale, la straordinaria abbondanza e varietà dei cibi in
mostra serviva ad esorcizzare la carestia e la fame: i vecchi a Salemi ricordano
ancora come ai loro tempi il giorno di S. Giuseppe fosse l’unica occasione
dell’anno in cui si potesse mangiare a sazietà».113
La miseria — non è mai superfluo ripeterlo — era allora diffusa in tutti i
comuni rurali di Sicilia. Ma al Padrone della Provvidenza bisognava comunque
rendere degno onore, se non si voleva perdere la sua benevolenza. Nei paesini
d’origine albanese si preparava, e si continua a preparare, un pane con l’uovo
battuto. È il caso di Palazzo Adriano.114A Mezzojuso la festa del
Patriarca è organizzata, in un clima di competizione con i «Greci», dai
«Latini». Ma poiché il pane di San Giuseppe non può sfigurare al cospetto dei
panuzzi di Santa Nicola, è reso lucido da spennellate d’uovo e regolarmente
punzonato da bbulla riproducenti uno il bastone fiorito dello sposo di Maria e
un altro la Sacra Famiglia.115
A Poggioreale, ma anche a Salaparuta e Ghibellina, i pani sono lavorati «con
sottilissimi aghi e con al centro della pasta di fichi, che fa contrasto e
determina la finezza e la leggerezza dell’opera d’intarsio. La tecnica con cui
vengono realizzati è quella dello squartucciatu. Essa consiste nell’intagliare
la spoglia di pasta con affilatissimi coltellini, in modo da evidenziare lo
strato di fichi sottostanti» senza rompere l’impasto di farina, «che deve
formare un unico tralcio che percorre tutto lo “squartucciatu”».116
Il numero dei pani squartucciati è determinato dal voto, ma non devono mai esser
meno di tre perché tanti sono i personaggi della Sacra Famiglia. Ad ogni
cucciddatu dal peso di 8-10 chili corrisponde un santo. I primi tre
rappresentano Gesù, Giuseppe e Maria, i due successivi San Gioacchino e la Madre
Sant’Anna e poi Sant’Antonio di Padova (cui spetta il giglio) ed eventualmente
altri santi scelti da chi fa il voto. «Oltre all’Ostensorio, dedicato a Gesù
Ostia negli altari non mancano mai i seguenti simboli: il cuore, dedicato alla
Sacra Famiglia; la croce a Gesù; la palma alla Madonna; il bastone fiorito a San
Giuseppe».117
Si potrebbe ancora parlare degli artistici pani di Alcamo disposti su un altare
a sette livelli «che secondo alcune interpretazioni rappresentano i sette
gradini della deposizione di Gesù», del cummiti di Prizzi, degli altari e dei
falò di Balestrate, della scunsatina di l’artari di Chiusa Sclafani… delle sacre
rappresentazioni di Barrafranca cui intervengono la Sacra Famiglia, l’Angelo e
gli Ufficiali di Erode, i quali, dopo aver recitato in processione le parti in
un testo del Seicento si radunano in piazza dove viene benedetta la tavolata
imbandita dal Bambin Gesù che pronuncia:
Biniditta a cena,
biniditta a Maddalena,
biniditti tutti quanti:
u Patri, u Figghiu e u Spiritu Santu.
Ma lo spazio è tiranno. Tanto vale allora cercare di tirare qualche timida
conclusione sull’insieme delle feste di San Giuseppe. Le mense di San Giuseppe
sono state assimilate all’agape cristiana, «cioè al pasto comunitario che i
primi cristiani compivano per ricordare l’Ultima Cena». La tesi è quanto meno
discutibile: «Nell’agape il cibo si sostanzia nel corpo di Dio e i fedeli nel
consumarlo entrano con esso in comunione. Nelle mense di San Giuseppe, di
contro, emerge una concezione del rapporto uomo-dio più arcaica, dal momento che
i personaggi raffiguranti la Sacra Famiglia che vengono invitati a mangiare
consumano i cibi proprio perché essi sono la divinità e mostrano il loro
gradimento rispetto all’offerta fatta in cambio di una grazia. In Sicilia
dunque, l’uso d’imbandire mense alla Sacra Famiglia sottende ancora oggi una
rappresentazione fortemente antropomorfica della divinità e richiama non l’idea
de sacrificio del dio, piuttosto quella del sacrificio al dio».118 Si
è, insomma, in presenza d’un rito d’origine pre-misterica con chiare
connotazioni agrario-ctonie.
Un altro aspetto che è utile sottolineare è il fatto che in molti comuni, da
Villafrati ad Alcamo, ad Alimena… si tramanda una leggenda secondo la quale il
Patriarca sarebbe morto «a du uri ri notti» del 18 marzo, nello stesso momento
in cui molti paesi si accendono i falò a San Giuseppe. Ora, comunque siano
chiamati — luminari, vampi, vampati, pagghiara, vamparigghi, ecc.—, questi
fuochi rimandano a quelli Slesia austriaca, con i quali, sul finire della
quaresima, si bruciava la Morte durante la cerimonia della sua cacciata.119
Viene allora spontaneo associare il banchetto di San Giuseppe al cùnzulu o
cùnsulatu che parenti e amici offrivano (e in molti paesini offrono ancora) ai
parenti stretti del morto nei primi tre giorni di lutto.120 Questa
tesi trova un’ulteriore conferma da un frammento del cosiddetto Testamento di
San Giuseppe che le donne di Alimena ripetono a conclusione del pranzo dei
virgineddi:
Figliu miu vogliu muriri
ca cchiù ccà nun vogliu stari
nun m’abbasta a mmia lu cori
di vederti sulla croce.
Figliu miu iu ti lasciu
la tinaglia e lu cumpasciu…
(Figlio mio voglio morire / chè più qua non voglio stare / non potrei sopportare
/ di vederti sulla croce. / Figlio mio io ti lascio / la tenaglia e il
compasso…).
«Nel cunzulu offerto a Maria — nota acutamente Fatima Gianlombardo — la comunità
dei viventi riscatta l’annuale iterato dolore della Madonna, mostrando con segni
eccezionali la propria solidarietà. Solidarietà che in una reciprocità che non
mancherà di effettuarsi deve tornare alla comunità dei viventi sotto forma di
grazia. Nella funzione attuale del banchetto, quello appunto che si esplica
nella catena delle alleanze, trova allora ragione d’esser la permanenza di un
livello arcaico della rappresentazione del pranzo in quanto è proprio nel
momento critico della morte che la comunità mette in atto meccanismi di difesa
individuale e di se stessa. E cosa meglio del cibo può garantire la continuità
della vita, cibo che per il suo simbolismo ormai inconsapevole media la
fondamentale contraddizione vita-morte?».121
* * *
A creare l’atmosfera del lungo e complesso iter celebrativo della Settimana
Santa in Sicilia sono pure pani e dolci che non sono pani anonimi o dolci
qualsiasi. Sono alimenti che contribuiscono a presentare in una dimensione
metastorica non solo la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo, ma
anche l’eterna trepidazione contadina per la sorte delle sementi affidate alla
terra, da cui in definitiva dipende la sopravvivenza della specie umana:122«La
settimana santa assicura la rigenerazione periodica dell’anno attraverso la
rappresentazione simbolica delle fasi conclusive del mito del dio salvatore. La
Pasqua è la morte e la rinascita di Dio, ma anche la rinascita della natura, la
nostra rinascita a nuova vita liberati da tutti i peccati».123
I dolci pasquali, divenuti ormai in molti comuni capolavori di pasticceria
tipica, erano un tempo pani. Ma le innovazioni non sempre riescono a nascondere
le differenti stratificazioni culturali e gli originari significati. «Così, al
simbolismo originario della Pasqua come rito di rinascita della natura si
riconnettono i dolci che contengono l’uovo, elemento centrale delle
rappresentazioni cosmogoniche; alla sua matrice semitica sono da riportare
invece quelli che raffigurano l’agnello, mentre all’iconografia cristiana
sembrano rinviare i dolci a forma di colomba».124
Sia pure in modo oramai residuale, il pane entra in scena nei rituali della
Settimana Santa fin dalla Domenica delle Palme, laddove questa si presenta come
momento esplicativo di ciò che avverrà nei giorni seguenti. A Prizzi, per
esempio, si svolge una caratteristica processione che vede un prete in groppa ad
un asino, intento a benedire le palme e i ramoscelli dei fedeli accalcati ai due
lati delle vie cittadine. Davanti al paziente quadrupede col benedicente sfilano
i dodici apostoli con ramoscelli di palma in mano e Giuda Esacariota che porta
una lanterna in cerca di Gesù. Dietro altri preti e chierici salmodianti. Nella
stessa giornata vengono allestite le tavolate in alcune chiese: su un ripiano
riccamente addobbato sono posti cinque o sei grossi pani, suddivisi in quattro
parti e ripieni di frutta e ortaggi. «Alla fine della funzione i dodici apostoli
provvedono a dividere il pane ai fedeli».125
Numerose e interessanti sono, sempre a Prizzi, le manifestazioni dl Giovedì
Santo. Oltre alla visita ai sepolcri, alla cerimonia della lavanda dei piedi,
alla via crucis e alla veglia nella Chiesa del Calvario, esse comprendono anche
la cena degli apostoli, evocativa dell’ultima cena e motivo ricorrente in altri
comuni della Sicilia interna. A San Mauro Castelverde gli apostoli che
partecipano al banchetto (zzena) sono scelti tra i quaranta confrati della
Congregazione del SS. Sacramento. Di fronte all’altare maggiore, «al centro
della chiesa, viene imbandita una tavola con 12 tipi di pietanze diverse, tra
cui pane, vino, arance, finocchi, dolci, lattuga, l’agnello pasquale. I resti
del pasto saranno distribuiti dai confrati a parenti e amici».126 A
Gangi i soci delle diverse confraternite «si dispongono a semicerchio, nella
propria chiesa, davanti a una tavola apparecchiata con i fasciddati (pani fatti
con farina di semola a forma di grande agnello). Al centro della tavola stanno
due grosse arance». A Polizzi Generosa si svolge la cena degli azzimi con
lattughe, arance e l’immancabile picuruni, agnello di marzapane.127 A
Borgetto dopo la lavanda dei piedi, «gli apostoli escono in fila dalla chiesa
con grandi corone d pane in testa ricevute in dono».128 A Canicattini
Bagni i pani degli apostoli (pani ra puostili) vengono preparati per sciogliere
un voto. Sono di forma ellissoidale e recano una tacca in forma di croce in una
delle due estremità. Durante la funzione in chiesa, dopo che il sacerdote lava i
piedi a dodici bisognosi del paese che rappresentano gli apostoli, i pani
vengono distribuiti agli stessi poveri.129
Altri pani speciali compaiono nel corso della settimana. A Favara hanno forma di
«grandi teste, la testa del Nazareno»; sono preparati dalle fidanzate il Sabato
Santo per farne omaggio ai futuri suoceri. «Pure il sabato si sogliono preparare
pani festivi di svariate forme a Naro e Racalmuto, resi lucidi dall’albume
dell’uovo e decorati, nel primo di questi paesi, con cucuzzeddi (semi di
papavero). Un pane speciale, detto pani di cena, con uovo al centro si
confeziona a Vallelunga. Ad Alimena le accene sono invece di veri e propri dolci
a forma di uccello che fungono da pane nella mensa imbandita per rappresentare
“l’ultima cena”».130
A Buscami si suole ancora preparare un tipico pani ri pasqua che «ha forma
rotonda e reca in mezzo una crocetta rilevata nella stessa pasta: è di grano
duro, pesa circa due chili, viene consumato il giorno di pasqua, e ci richiama
il pane tetrablomo, raffigurante l’ostia del banchetto eucaristico». Altrove
«nomi e forme di pane rimangono ad attestare tradizioni scomparse ma che
certamente trovano dei nessi nella simbologia pasquale. La cruna rô Signori e a
tinagghia, ad esempio, sono pani che ancora a Modica […] si sogliono
confezionare per i bambini un po’ in tutti i tempi».131
A parte le uova di cioccolata prodotte industrialmente e comuni a tutte le
regioni d’Italia, tipici dolci pasquali in Sicilia sono la cassata, le
cassatelle con ricotta, fritte o al forno, i pupi cull’ova e i picureddi,
«pecorelle di pasta reale, la cui posa è divenuta ormai un classico: sdraiate su
un fianco sopra un prato verde disseminato di confetti multicolori, con una
banderuola rossa, simile a quella che nell’iconografia sacra è in mano a San
Giovanni, infilzata sul dorso».132
Una precisazione è però d’obbligo: quelli che abbiamo chiamato genericamente
pupi cu l’ova sono in realtà pani con l’uovo che da tempo tendono ad evolversi
in dolci. Nel presentarli al vasto pubblico che visitò la Mostra Etnografica del
1891-92, Pitrè si sentì in dovere di fare questa premessa: «Diconsi pupi
cull’ova certi pani o certe paste dolci di proporzioni diverse, e con forme di
bambola, di pupattola, di prete, di mostro, o d’altro, sopra od entro le quali
forme sono delle uova sode».133
Un saggio di geografia linguistica ed etnografica, appunto sui pani di Pasqua
con l’uovo, è stato recentemente pubblicato da Giovanni Ruffino il quale,
attraverso una paziente ricerca sul campo, ha individuato ben 12 aree di
produzione di questi pani, «ciascuna delle quali si caratterizza per un tipo
lessicale prevalente» e «una dozzina ancora di aree isolate, prive di
consistenza territoriale».134 Procedendo da occidente verso oriente
le aree lessicali sono:
1) Area di campanaru, comprendente il Trapanese, il Marsalese e l’isola di
Pantelleria. Anche se il nome richiama l’immagine delle campane, «piuttosto che
del campanile (significato primario della voce)», non c’è corrispondenza con la
forma dei pani raccolti.
2) Area di cannatuni, che include il resto della provincia di Trapani e parte
dell’Agrigentino. Il nome evoca l’immagine della brocca (cannata), ma le
figurazioni più comuni riscontrate sono la colomba e la urzicedda, ossia la
borsetta (Salemi). Nel cannatuni di Alcamo «la pasta è appendice ornamentale di
un uovo che, col suo rosso acceso, diviene l’elemento centrale».
3) Area di cannateddu: presente anche a Pantelleria, comprende una dozzina di
comuni nord-occidentali della provincia di Palermo con testimonianze isolate
nell’interno sino ad Enna. Non esistono riscontri figurativi.135
4) Aree delle onomatopee (1. cicìu; 2. cilicìu). Il primo sottotitolo si
riscontra nel Belice del versante agrigentino. Il secondo si estende in parte
del Catanese non costiero e dell’Ennese (Centuripe e Catenanuova) e del
Siracusano (Lentini e Carlentini).
5) Area di pupu cull’ovu. Abbraccia buona parte della provincia di Palermo
sfiorando i centri madoniti settentrionali e quelli messinesi più occidentali.
All’interno della macroarea si riscontrano alcuni tipi isolati come pizzu a
Collesano, panare a Piana degli Albanesi, ecc. Prevalgono in tutta l’area le
figurazioni oggettuali non sempre determinate. «Gli unici esemplari antropomorfi
coerenti con la denominazione sono quelli di Lascari».
6) Area di cannileri: copre quasi tutto l’Agrigentino penetrando nel Nisseno e
dell’Ennese. Le figurazioni non hanno nulla a che vedere col candelabro.
7) Area di panaredda: compattamente presente in una piccola isola della vasta
area di cannileri, gravita in parte dell’Agrigentino con presenze anche nel
Ragusano e nel Siracusano. Presenta frequenti riscontri figurativi.
8) Area di aceddu: comprende alcuni comuni madoniti, nisseni settentrionali e si
attesta anche in alcuni comuni del Siracusano e del Catanese. In alcuni paesi
(Alimena, Valledolmo) si alterna col tipo accena (pane della cena).
9) Area di varata. Il nome presuppone una base di varia forma. Si riscontra a
Mistretta, a Caronia, a Galati Mamertino.
10) Area di cuddura (cull’ovu). Comprende i territori messinesi centro-orientali
ed etnei fino alla periferia di Catania ed è presente isolatamente anche a San
Mauro Castelverde e Troina.
11) Area di palummedda: tipo lessicale prevalente ma tutt’altro che esclusivo,
in un’estesa fascia sud orientale comprensiva di comuni ennesi, catanesi,
ragusani e siracusani.
12) Compresenza di più tipi: sono almeno tre. Una si trova al confine tra le
province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta; una prevalentemente ennese; e
una di confluenza dei territori catanesi, siracusani e ragusani.136
A Bisacquino, nel Palermitano, si usa tutt’ora preparare dolci con le uova a
forma di seno femminile detti perciò minneddi.137
Nel complesso la tradizione dei pani di Pasqua mostra ancora una certa vitalità,
sia pure affievolita: risultano «tutto sommato, quasi inesistenti i centri nei
quali la tradizione sia del tutto scomparsa». A Campobello di Licata e a
Ravanusa, dove non si fanno più «i non dimenticati pani della Pasqua» le donne
più anziane hanno dimostrato di saperle preparare su richiesta dei ricercatori.
«Altrove (tranne che nel Valdericino) permane quanto meno il nome assieme al
ricordo».138
L’evolversi del pane pasquale in dolce ha comportato «una sempre più massiccia
utilizzazione d’ingredienti estranei alla panificazione tradizionale: all’olio è
subentrata la sugna (saimi), al lievito (criscenti, livatina) l’ammoniaca
(armòniu)». Si sono inoltre introdotte «sovrastrutture decorative sempre più
elaborate» in cambio dei tradizionali semi di sesamo o di papavero (paparina) »:
il pane–dolce dei nostri giorni viene così ricoperto da «una semplice glassa di
zucchero, albume e limone (marmurata, vilata, allustrata o jelu, a seconda delle
parlate), che un tempo veniva stesa con una penna di gallina».139 Le
uova, che s’inseriscono generalmente sode, possono essere colorate di rosso, il
colore della fertilità.140 «La colorazione può essere ancora oggi
rudimentalmente ottenuta mettendo a bollire le uova in un infuso ottenuto da una
speciale radice, la rùggia (testimonianze raccolte a Mezzojuso - PA e a Librizzi
- ME). Più frequentemente si usa strofinare sul guscio dell’uovo della carta
velina rossa leggermente inumidita».141
A San Biagio Platani, nell’Agrigentino, nei tempi passati il fidanzato (zitu)
donava alla fidanzata (zita) un cannileri con 10 uova. Nei quartieri marinari di
Sciacca il pane pasquale donato alla fidanzata conteneva ben 21 uova. In quelli
abitati da famiglie contadine «la zita usciva di casa a mezzogiorno del sabato
santo per recarsi a casa del futuro sposo, al quale faceva dono di un cannileri
con nove uova, mentre ne riservava uno con quattro al suocero e con due alla
suocera».
I pani di Pasqua si mangiavano solo dopo la Resurrezione. Prima di consumare i
pasturi, a Sant’Agata di Militello il membro più anziano della famiglia bruciava
in casa un po’ d’incenso e benediceva i familiari. A Favignana il campanaru si
mangiava il Sabato Santo dopo aver baciato per terra. A Centuripe, ma anche
altrove, il pane di Pasqua si consumava in chiesa mentre suonava il Gloria,
«quando veniva repentinamente abbassato il grande velo quaresimale e talvolta si
liberavano le colombe. A Montelepre (PA) questo rito era accompagnato dalla
formula: A gloria sunàu / cannateddu si spizzau / e si fici a mmostra a mmostra
/ cannateddu senza ossa».142
(A Gloria suonò / cannateddu si spezzò / e si fece a pezzetti / cannateddu senza
ossa).
A San Biagio Platani la Domenica di Resurrezione si caratterizza per l’incontro
di Cristo Risorto con la Madonna nella surreale scenografia del corso principale
artisticamente addobbato di archi di pane.143
Autori di questi spettacolari allestimenti sono, in
competizione tra loro, i devoti della Madonna (madunnara) e quelli del Signore
(signurara), facenti capo rispettivamente alle confraternite del SS. Sacramento
e del SS. Rosario, istituite nel Seicento. «Ciascun gruppo gestisce la propria
metà a partire da due archi che si fronteggiano a breve distanza nel punto
centrale: i signurara curano il tratto di strada che dalla chiesa si allunga
verso est, i madonnara quello che va verso ovest. Mosaici, ingressi di
cattedrali, riproduzioni di strutture architettoniche, fontane, intrecci ed
elaborazioni fantasiose che rilevano una notevole perizia tecnica, tutto è
pretesto per solennizzare in maniera originale il trionfo di Cristo sulla morte.
A San Biagio gli archi — così viene chiamato il complesso di queste costruzioni
— hanno preso particolare slancio dopo l’abolizione del giorno di S. Giuseppe
dal calendario festivo […] Agli eccessi attuali che portano i sambiagesi a
calcolare persino il numero di cereali, legumi e spezie impiegati per
confezionare mosaici della Passione e di altre scene bibliche, si oppone il
ricordo di un cerimoniale molto sobrio che lasciava però intravedere più
scopertamente le strutture e i simboli che ancora oggi, nonostante tutto, lo
informano».144 Gli archi un tempo erano soltanto due, addobbati, come
adesso, con agrumi, fiori, rosmarino, alloro, foglie di palma e soprattutto
pani. Alcuni di questi pani, generalmente azzimi, sono decorati con la glassa
(marmurata) e talvolta anche con palline di zucchero colorato (diavulina). «Al
centro e ai lati degli archi vengono appese tre nimpi, una sorta di lampadari la
cui anima in legno, adesso in ferro, viene interamente rivestita di datteri
bucati, di palme intrecciate e fiori, generalmente di banano». Intagliati con
straordinaria maestria, i pani degli archi sono di dimensioni ridotte rispetto a
quelli che nella stessa San Biagio si preparavano a gloria di San Giuseppe.
Altri pani benedetti fanno spettacolo in occasione di particolari feste
religiose della Sicilia occidentale. Una di queste feste è quella del SS.
Crocifisso che si celebra nei primi tre giorni di maggio a Calatafimi.145
Ogni quattro anni sfilano in pompose processioni, parzialmente a cavallo, i
rappresentanti di tutti i ceti del paese. Portano in dono lu prisenti, un coppa
d’argento piena di monete d’oro, e lu circu, cupola sormontata da una croce di
pane con spighe, sostenuta da un lungo bastone e ricoperta da alloro, fiori,
nastri colorati e cuccidati di circa 200 grammi, adorni di figurine di cacio
fresco appositamente preparati dai Pecorai e dai Caprai. In sella alle loro
cavalcature i Borgesi e i Cavallai lanciano manciate di confetti e noccioline.
Da sopra un carro tirato da buoi su cui è installata una torre alta tre metri, e
anche’essa culminante in una croce di pane con spighe, i Massari distribuiscono
a piene mani pani benedetti ai fedeli.
Non meno suggestivi sono i festeggiamenti in onore della Madonna di Tagliavia
che ogni anno si svolgono a Vita il giorno dell’Ascensione. Oltre alla
processione, alla messa di mezzanotte e alla benedizione mattutina degli
animali, si registra un aspetto inedito di folklore religioso nel pomeriggio:
«Misticismo, fantasia e tradizione si intrecciano componendo uno scenario
colorito che trasporta in altri tempi e in altre dimensioni». Sfilano per le vie
cittadine non pochi fedeli a cavallo, un carro carico di olive e di vino e le
«carrozze del Pane». Sui balconi stracarichi di persone d’ambo i sessi e d’ogni
età e nelle strade assiepate da turisti vengono lanciati buste di olive e di
vino e tanti cucciddati. «È la festa dell’abbondanza, ma anche l’espressione del
ringraziamento alla Madonna di Tagliavia per il raccolto agricolo, con chiare
finalità propiziatorie […] Per l’aspetto comunicativo e per la forza emotiva da
cui è caratterizzata, la festa è stata trasferita anche in Canada, a Toronto,
dove i numerosi emigrati vitesi hanno ravvivato il culto della Madonna di
Tagliavia e diffuso la tradizione siciliana in mezzo ad altre comunità».146
Degna di nota è pure la Frottola, manifestazione religiosa che si svolge a
Cefalù la domenica successiva alla festa dl Corpus Domini. L’aspetto più
originale è costituito dalla pittoresca sfilata di carri allegorici, addobbati
con primizie e fiori, e di bambini che portano canne alle cui estremità sono
attaccati, come trofei, cucciddati. L’allegro corteo, accompagnato dalla banda
musicale e da gruppi folkloristici, va distribuendo pane per le strade.147
Per grazia ricevuta il 3 maggio a Barrafranca i devoti di Sant’Alessandro
offrono al Santo ex voto di pane riproducenti parti anatomiche.148 Il
22 dello stesso mese, in occasione della festa di Santa Rita, a Castelbuono si
distribuisce pane benedetto e piovono rose dal campanile di una chiesa.148
Nei borghi rurali di Castelluccio-Graneri di Noto la Santa delle cose
impossibili si festeggia l’ultima domenica di luglio con fuochi d’artificio,
giochi popolari, gimkana di trattori, asta di prodotti tipici cui fa da contorno
la sagra del pani cunzatu, pane casereccio condito con olio d’oliva e innaffiato
da buon vino.
Già,’u pani cunzatu, umile prelibatezza contadina che non manca mai nelle sagre
paesane e segnatamente in quelle dell’olio, del vino e del pesce. Ma, se le
sagre e le feste sono brevi parentesi nel lungo squallore del quotidiano, il
pane di tutti i giorni rimane pur sempre grazia di Dio, metafora della vita e
simbolo dell’alleanza dell’uomo con il Creatore.
Note
1 Cfr. E. Onufrio, La Conca d'oro – Guida Pratica di Palermo,
Palermo 1976, pp. 75-76 e 83.
2 Cfr. F. Giallombardo, Festa orgia società, Palermo 1990;
V. Lanternari, La grande festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle
società tradizionali, Bari 1976, pp. 509-521; M. Eliade, Trattato di
storia delle religioni, trad. it., Torino 1976, pp. 371-375. Su altri
aspetti della festa cfr. L. Sciascia, Feste religiose in Sicilia, Bari
1965; L. Mazzacane - L. M. Lombardi Satriani, Perché le feste, Roma
1974; A. Rossi, Le feste dei poveri, Palermo 1986.
3 Cfr. S. Freud, Totem e tabù, trad. It., Torino 1975, p.
144.
4 Cfr. F. Giallombardo, Festa orgia cit., p. 14.
5 Cfr. A. Cusumano in A. Buttitta – A. Cusumano, op. cit. ,
p.87.
6 Cfr. A. Buttitta, Ibidem, p.19.
7 Cfr. A. M. Cirese , Introduzione a A. Uccello, Pani e
dolci di Sicilia cit., pp. 9-10.
8 Cfr. G. Pitrè, Catalogo illustrato cit., p. 3 e 59-64.
9 Cfr. F. Brancato, L'EsposizioneNazionale di Palermo (15
novembre 1891-5 giugno 1892), Palermo 1985, p.22.
10 Cfr. J. Vibaek, Museografia e cultura materiale in
AA.VV., La Cultura materiale in Sicilia, Palermo 1980, pp. 644-655.
11 Cfr. G. Pitrè, La Famiglia la casa cit., p.184.
12 Cfr. V. Graziano, Ciminna-Memorie e documenti, a cura di
F. Brancato, Palermo 1989.
13 Cfr. G. Pitrè, La Famiglia la casa cit., pp.183-184.
14 Cfr. R. Castelli, Credenze e usi popolari siciliani,
Palermo 1980, p.33.
15 Cfr. V. Graziano, Canti e leggende cit., p.68.
16 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.100.
17 Cfr. Ibidem .
18 Cfr. Regione Siciliana, Sicilia Un anno di feste. Le
tradizioni religiose e rurali, Palermo 2000, p. 55.
19 Cfr. O. Granata, Valledolmo dall'origine ai giorni nostri,
Palermo 1982, p.160.
20 Cfr. A. Buttitta – A. Cusumano, op. cit., p.108.
21Cfr. Regione Siciliana, Sicilia cit., p.34.
22 Cfr. Ibidem, p.65.
23 Cfr. Ibidem, p.73.
24 Sulle feste di San Calogero cfr. G. Pitrè, Feste patronali
cit., pp.367-385.
25 Cfr. G. Cocchiara, Le immagini devote del popolo siciliano,
pp.27-28 e 167-168. Una immagine di San Calogero è pure allegata da Pitrè
in calce al volume Medicina popolare cit.
26 Cfr. A. Amitrano Savarese, Sicilia antropologica, Palermo
1992, pp. 88-89.
27 Cfr. Regione Siciliana, Sicilia cit., p.34.
28 Cfr. Ibidem, pp.76-77.
29 Cfr. G. Cilona, Favara nel tempo, vol.2, Agrigento 1992,
pp.135-136.
30 Cfr. G. Pitrè, Feste patronali cit., p.384.
31 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.118.
32 Cfr. A. Buttitta – A. Cusumano, op. cit., p.108.
33 Cfr. G. Pitré, La famiglia la casa cit., pp.185-186.
34 Cfr. R. Castelli, Credenze e usi cit., p.41.
35 Cfr. B. Rubino, Bizzarrie della panificazione , art. cit.
36 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., p.383.
37 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit.,
pp.102-103.
38 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., p.409.
39 Cfr. G. Pitré, Cartelli, pasquinate, canti, leggende, usi del
popolo siciliano, Palermo 1978, p.168.
40 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., p.411.
41 Cfr. G. Pitré, Usi e costumi – Credenze e pregiudizi del
popolo siciliano, vol. I, Palermo 1978, p.400.
42 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.96.
43 Cfr. A. Cusumano in A. Buttitta – A. Cusumano, op. cit.,
p.106.
44 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio cit., p.59; Regione
Siciliana Assessorato Beni Culturali, Percorsi di studio nella Valle del
Sosio (a cura di I. e M.. Profeta), Palermo 1999, p.63.
45 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio cit., p.59.
46 A fornirci queste informazioni è stata il 20 luglio 2001
Illuminata Profeta, gelosa custode delle tradizioni albanesi e appassionata
promotrice del turismo culturale nella Valle del Sosio.
47 Cfr. A. Buttitta – A. Cusumano, Pane e festa cit., p.17.
48 Cfr. M. Zanzucchi Castelli, Pane cit., p.56.
49 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., pp.416-417.
50 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio cit., p.120.
51 Cfr. A. Cusumano in A. Buttitta – A. Cusumano, op. cit.,
p.106.
52 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., pp.96-97.
53 Sulla descrizione dello sfinciuni e le possibili varianti
cfr. G. Coria, Profumi cit., pp.95-96.
54 Cfr. Ibidem, pp.92-93.
55 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio cit., p.149.
56 Cfr. Ibidem, p.97.
57 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., p.427.
58 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.99.
59 Cfr. Regione Siciliana, Sicilia cit., p.45.
60 Cfr. Ibidem, pp.92-93.
61 Cfr. M. Zanzucchi Castelli, Pane cit., p.116.
62 Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d'oro cit., p. 410.
63 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., pp.444-445.
64 Cfr. Ibidem, p.445 n.1.
65 Cfr. A. Buttitta, Le feste di Pasqua, Palermo 1980,
p.168.
66 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., pp.65-68.
67 Cfr. Ibidem, p.68.
68 Cfr. S. Burgaretta, Api e miele in Sicilia, Avola,
Edizione del Museo Etnoantropologico della Valle del Belice, Gibellina 1982,
pp.57-59.
69 Cfr. G. Coria, Forme e magia dei dolci in Sicilia in
La Sicilia ricercata, n.5., p.93.
70 Cfr. M. Zanzucchi Castelli, Il Pane cit., p.174.
71 Cfr. G. Coria, Forma e magia cit., p.94.
72 Cfr. G. Pitré, Usi e costumi cit. , vol. II,
p.76.
73 Cfr. Regione Siciliana, Sicilia cit., pp.61 e 93.
74 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio cit., P.149.
75 Cfr. G. Pitré, Usi e costumi cit. , vol. III,
p.261.
76 Cfr. A. Buttitta – A. Cusumano, Pane e festa cit., p.17.
77 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.99.
78 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., p.181.
79 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.109.
80 Cfr. A. Buttitta – A. Cusumano, Pane e festa cit., p.108.
81 Cfr. Regione Siciliana, Sicilia cit., pp.62 e 66.
82 Questa notizia l'ho appresa a Roma da una testimonianza resami da
Biagio Di Bella (dirigente della CIA e figlio di un carbonaio di Caronia) nel
mese di febbraio 2000.
83 Cfr. Regione Siciliana, Sicilia cit., pp.62 e 67.
84 Cfr. Ibidem, p.41.
85 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio cit., p.78.
86 Cfr. la prima tavola allegata da Pitrè in calce alla sua
Medicina popolare cit.
87 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.101.
Cfr. pure G. Coria, Forme e magia cit., p.94.
88 Cfr. Ibidem, p.112.
89 Cfr. M. Zanzucchi Castelli, Pane cit., p.165.
90 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., p.328-329.
91 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.115.
92 Cfr. At 28, 3-6.
93 Cfr. M. Zanzucchi Castelli, Pane cit., p.70.
94Cfr. A. Buttitta – A. Cusumano, Pane e festa cit., p.106.
95 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., pp.230-247; Id.
Feste patronali cit., pp.441-456; F. Giallombabrdo, Festa orgia
cit., passim; G. Oddo, Le radici agrarie nel culto di San
Giuseppe in Sicilia in Nuova Agricoltura, 1999, n.4.
96 Cfr. G. Pitré, Spettacoli e feste cit., p.XVIII.
97 Cfr. S. Salomone Marino, Costumi e Usanze cit., p. 228.
98 Cfr. S. A. Guastella, Le parità cit., p.228
99 Cfr. Id. , Canti popolari cit., pp. LXLIII-LXLIV.
100 Cfr. Regione Siciliana, Sicilia cit., pp.26-27.
101 In proposito cfr. S. A. Guastella, L'antico Carnevale della
Contea di Modica, Palermo 1973.
102 Sui diversi livelli simbolici delle feste di San Giuseppe cfr. F.
Giallombardo, Festa orgia cit., pp.18-19.
103 Cfr. G. Pitrè, Feste patronali cit., pp.456-459.
104 Cfr. Ibidem, p.450.
105 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.75.
106 Cfr. Ibidem, pp.75-76.
107 Cfr. Ibidem, pp.77-78.
108 Cfr. M. Croce, Le cene di S. Giuseppe in Kalôs –
arte in Sicilia, 1998, n.2, p.36.
109 Cfr. Salemi luogo di delizia, s.d. (ma del 2001),
pp.18-19. Il testo è di Mario Tumbiolo.
110 Questa informazione mi fu fornita il 20 marzo 2001 dalla signora
Antonina Surdi Maltese della Associazione Culturale Pusillesi di Salemi.
111 Cfr. Foglio ciclostilato dell'Associazione Pusillesi-Salemi.
112 Nell'orizzonte folklorico del Sud il vino è sempre associato al
pane. Cfr. I. Silone, Vino e pane, Milano 1982.
113 Cfr. M. Croce, Le cene cit.
114 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio cit., p.57.
115 Testimonianza di Angela Li Pira (classe 1934) sposa di Giuseppe
Zero, nativo di Mezzojuso.
116 Cfr. Comune di Poggioreale – A.T. Pro-loco “Elimo”, 2ª Mostra
dello squartucciatu 18-19 marzo 1996, p.9.
117 Cfr. Ibidem, p.11.
118 Cfr. F. Giallombardo, Festa orgia cit., pp.148-149.
119 Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d'oro cit., p.679.
120 Cfr. G. Oddo, Le radici agrarie cit., p.60.
121 Cfr. F. Giallombardo, Festa orgia cit., pp.122-123.
122 Cfr. G. Oddo, La Settimana Santa in Sicilia in Nuova
Agricoltura, 2000, n. 4, pp.61-63.
123 Cfr. A. Buttitta M. Minnella, Pasqua in Sicilia, Palermo
1978, p.8.
124 Cfr. F. Giallombardo, Festa orgia cit., p.42 n.8. Cfr.
pure A. Buttitta – M. Minnella, Pasqua cit., pp.19-20; A. Buttitta,
Le feste di Pasqua, Palermo 1980, pp.41-43.
125 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio cit., p.78-79.
126 Cfr. C. Paterna, La Settimana Santa nelle Madonie in A.
Buttitta, Le feste cit., p.90.
127 Cfr. Ibidem, pp.92-94.
128 Cfr. A. Buttitta, Le feste cit., p.44.
129 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.82.
130 Cfr. A. Buttitta, Le feste cit., pp.44-45.
131 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.82
132 Cfr. G. Coria, I dolci della Pasqua in La Sicilia
ricercata, 2000, n.4, p.89.
133 Cfr. G. Pitrè, Catalogo illustrato cit., p.61.
Sull'argomento cfr. dello stesso A: Spettacoli e feste cit.,
pp.224-226; Usi e costumi, vol. IV, cit., pp.361 e 364; La
famiglia, la casa cit. 190-192.
134 Cfr. G. Ruffino, I pani di Pasqua in Sicilia – Un saggio di
geografia linguistica e etnografica, Palermo 1995, p.35.
135 A Prizzi il pane pasquale con l'uovo si chiama cannateddu
ma ha la forma di un panierino. Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio
cit., p.81.
136 Cfr. G. Ruffino, I pani di Pasqua cit., pp.35-36.
137 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio cit., p.97.
138 Cfr. G. Ruffino, I pani di Pasqua cit., pp.38-39.
139 Cfr. Ibidem, pp.32-33.
140 Cfr. B. Dupaigne, Le pain, Paris 1979, p.112 cit. da G.
Ruffino, I pani di Pasqua cit., p.31.
141 Cfr. G. Ruffino, I pani di Pasqua cit., p.31, n.11.
142 Cfr. Ibidem, pp.37-38.
143 Cfr. S. D'Onofrio, Gli Archi di San Biagio Platani in A.
Buttitta, Le feste cit., pp.139-144; A. Cusumano in A. Buttitta A.
Cusumano, Pane e festa cit., pp.102-104.
144 Cfr. S. D'Onofrio, Gli Archi cit., pp.140-142.
145 Cfr. D. Trapani, Il SS. Crocifisso di Calatafimi,
Calatafimi 1982; F. Giallombardo, Festa orgia cit., p.60; M. Zanzucchi
Castelli, Pane cit., pp.46-47.
146 Cfr. Regione Siciliana, Sicilia cit., pp.114-115.
147 Cfr. Ibidem, p.78.
148 Cfr. Ibidem, p.53.
149 Cfr.
Ibidem, p.74.