Il pane è più antico dell'uomo, recita un proverbio albanese. Il detto non trova
però eccessivo credito nemmeno in chi lo cita: «scaturisce da un sentimento
poetico, ma errato, della storia», taglia corto Heinrich Edward Jacob.1
Non si può invece liquidare sbrigativamente la pur leggendaria storia
tramandataci da Plinio il Vecchio: «Cerere trovò il frumento, mentre prima si
viveva di ghiande. Lei stessa insegnò a macinare e a fare il pane in Attica e in
Sicilia: per questo fu tenuta per dea».2
Si tratta di una ricostruzione che la dice lunga sui contenuti ideologici
della più avveduta cultura classica che aveva fatto del pane un segno forte
della civiltà, anzi una marca di riconoscimento che l'uomo civile ostentava ai
barbari. In buona sostanza, se il pane era «veramente un cibo-simbolo, uno
statuto ideologico prima che un alimento reale»,3 non poteva essere
altro che dono di una tra le più amate divinità del pantheon romano. La scelta
di Cerere, nella quale i cittadini dell'Urbe identificarono la dea greca
Demetra, era quindi quella giusta, obbligata persino, a giudicare da com'erano
cambiate le abitudini alimentari romane in seguito ai primi contatti con la
Magna Grecia e, soprattutto, dopo il 241 a.C., quando la Sicilia divenne
provincia e granaio di Roma.
Nulla ci dice però Plinio sull'origine della panificazione nel mondo. Ora, se
per pane intendiamo quel prodotto alimentare ottenuto dalla cottura in forno di
un impasto di farina, lievito e (anche se non necessariamente) sale, il primo
problema che si pone a chiunque voglia ricostruirne la storia è di fissare il
momento iniziale della coltivazione dei cereali e soprattutto del grano, materia
prima per antonomasia della maggior parte dei panificatori del pianeta. E questo
è un problema ancora irrisolto, per quanti sforzi abbiano fatto in tutti i tempi
gli storici. «La storia - nota opportunatamente Hanri Fabre - celebra i campi di
battaglia dove incontriamo la morte, ma sdegna di parlare dei campi arati dei
quali viviamo; sa i nomi dei bastardi di re, ma non può dirci l'origine del
grano. Queste sono le vie dell''umana pazzia».4
Eppure il consumo dei cereali accompagna l'uomo da tempo immemorabile. Scandisce
la nascita, lo sviluppo e il declino delle prime civiltà. Gli stessi Cinesi si
sono sempre nutriti di cereali, se è vero che «conoscevano il pane ventotto
secoli prima dell'era cristiana e lo abbandonarono per il riso forse in seguito
ad invasioni di popoli che lo consumavano in luogo del pane».5 A
testimonianza di questa loro antica cultura alimentare basti ricordare che erano
soliti domandare il frumento e l ' orzo a Hou–tzi, il Principe delle Messi.6
Ma è soprattutto nell' area del Mediterraneo e nelle regioni limitrofe che
acquista maggior spessore e più consistenza la vicenda dei cereali, il cui
controllo diviene strumento di prestigio e di dominio politico e, addirittura,
motivo fondante dell'identità dei popoli. Qui, l'alba della storia «coincide con
l'invenzione dell'agricoltura, rivoluzione neolitica della quale abbiamo appreso
da poco, grazie ai metodi di datazione al radiocarbonio, che risale al 9000
circa a.C.», e che la sua diffusione copre vari millenni. «Tale grande cesura
della storia dell'umanità non si è dunque instaurata molto rapidamente. Il suo
sviluppo, tuttavia, è avvenuto a partire da numerosi nuclei, più o meno
collegati tra loro, e ha portato con sé i cereali - piante selvatiche che
sfruttate per molto tempo allo stato naturale, prima che a poco a poco se ne
iniziasse la coltivazione -, gli alberi da frutto, gli strumenti e le abitudini
sedentarie».7 Ma in quale area furono addomesticati i primi cereali?
Probabilmente «sui rilievi che delimitano il deserto della Siria o sugli
altipiani montuosi dell'Anatolia e dell'Iran», nella regione, insomma, che gli
storici chiamano «Mezzaluna fertile».8
Comunque siano andate le cose, è certo che alcuni cereali come il miglio,
l'avena, l'orzo, il frumento, il farro nutrono l'uomo fin dalla preistoria. A
questi si sono aggiunti nel periodo tardo classico la segala e, dopo la scoperta
dell ' America, il mais o granoturco. La storia del riso è un caso a sé:
coltivato fin dall'epoca più remota in Estremo Oriente, era conosciuto dal mondo
classico, che però non lo utilizzava; ad introdurlo in Sicilia furono gli Arabi
nel nono secolo. Il più antico dei cereali è probabilmente il «padre miglio»; da
sempre il più apprezzato il grano ( triticum sativum ), perché
particolarmente adatto alla panificazione. Rimane però ancora da capire quale
sia la patria d ' origine di questa benemerita pianticella che Giovanni
Pascoli definì «l'erba che ci mansuefece, il pane che ci affratellò».9
Il vescovo e scrittore greco Eusebio di Cesarea la identifica con la Valle
dell'Eufrate, altri con quella del Giordano, Strabone con l'India, Tibaud De
Bernard con l'Etiopia, «memore forse che se Giove andava a banchettare dagli
Etiopi, il pane non vi doveva mancare»; aggiunge che da qui il prezioso cereale
sarebbe poi pervenuto in Egitto. E Diodoro Siculo non manca di candidare la
Sicilia a madre del grano primigenio. «Spontaneo in Sicilia fu trovato una
specie di grano, il Triticum villosum; e il botanico Mattei avanzò l'ipotesi che
il villosum attraverso le vicende della coltivazione possa essersi trasformato
in sativum, data la tenue differenza tra loro intercorrente. La Sicilia quindi
possiede titolo almeno dello stesso valore di molte altre regioni per
proclamarsi culla del grano: questo sia detto senza pretendere di interferire
nelle conclusioni rigidamente scientifiche dei competenti».10
Ora, al di là d'ogni «mito delle origini», sembra ormai assodato che tutti
i popoli mediterranei, conoscono il grano fin dagli albori della loro storia,
anche se incominciarono a panificare in tempi diversi. Su un'altra cosa sembra
che non ci siano più dubbi, oramai: l'avventura della panificazione ebbe inizio
nell'Egitto dei faraoni. Ma questo fu in qualche maniera messo in discussione da
Erotodo, «il padre della storia». Si legge, infatti, nelle sue Storie :
Prima che Psammetico regnasse su di loro, gli Egiziani si ritenevano i più
antichi di tutti gli uomini. Ma da quando Psammetico, divenuto re, volle sapere
chi fossero i più antichi, da allora ritengono che i Frigi siano più antichi di
loro e loro più antichi degli altri. Poiché Psammetico, pur facendo ricerche,
non riusciva a scoprire nessun mezzo per sapere chi fossero i più antichi tra
gli uomini, escogitò questo espediente: diede a un pastore due neonati, di gente
presa a caso: doveva portarli presso il suo gregge ed allevarli lì nel modo
seguente: con l'ordine che davanti a loro nessuno pronunziasse mai una parola:
che se ne stessero da soli in una capanna isolata: che al momento giusto il
pastore portasse loro capre, li saziasse di latte e si occupasse del resto.
Psammetico fece e ordinò così volendo ascoltare quale parola avrebbero emessa
per prima, una volta abbandonati i confusi balbettii. E questo avvenne. Infatti,
quando furono passati due anni che il pastore si comportava così, mentre apriva
la porta ed entrava, entrambi i bambini gli si gettarono ai piedi e
pronunciarono bekos tendendo le mani. La prima volta sentì questa
parola, il pastore stette zitto: ma poiché spesso, quando andava e si occupava
di loro, la parola ricorreva frequente, lo rivelò al padrone, e su ordine del
padrone, portò i bambini al suo cospetto. Ascoltatili anch'egli, Psammetico
faceva ricerche su quali uomini chiamassero qualcosa bekos ; facendo
queste ricerche, scoprì che i Frigi chiamavano bekos il pane. In tal
modo gli Egizi, valutando anche in base a questa circostanza, ammisero che i
Frigi erano più antichi di loro. 11
Il pane, il cibo più nutriente, simbolo dell ' identità di molti popoli, era
dunque conosciuto in Frigia prima che in Egitto, a detta di Erotodo. Perciò i
Frigi erano più antichi degli Egizi. Rimane però un mistero per quali strani
meccanismi due bambini, vissuti in totale isolamento e nutriti con latte di
capra, avessero desiderio di pane e ne conoscessero addirittura il nome nella
lingua dei loro antenati. Più credibile è, il grande storico greco, quando
accenna ai pani di farro, (che altre fonti ci dicono esser destinati ai ceti
meno abbienti) 12 o c'informa sulla preparazione di un tipo
particolare di pane a base di semi di loto: dopo aver colto certi gigli, «li
seccano al sole; pestano quindi la parte interna del loto, che è simile al
papavero, e ne fanno pani cotti con il fuoco».13 Dallo stesso Erotodo
apprendiamo, inoltre, che gli Egiziani impastavano il pane con i piedi:
particolare, questo, mirabilmente confermato da un dipinto tombale noto come la
panetteria regale , raffigurante i fornai della corte di Ramsete III
(1198-67 a.C.).14
L'impasto del pane, vuole un curiosa leggenda, sia nato per caso, appunto in
Egitto, in seguito ad uno straripamento del Nilo, la cui acqua bagnò le scorte
di farina conservate nei magazzini del faraone. Anche il lievito è nato in
Egitto, circa diciotto secoli prima dell'era cristiana. E Arnoldo Luraschi era
pronto a dimostrarlo «con prove alla mano», non disdegnando però di raccontare
una «storiella» non meno curiosa di quella dell'impasto: «una domestica egizia,
per far dispetto alla padrona, avrebbe gettato nella pasta del pane il residuo
della preparazione della birra, la quale provocò la fermentazione dell'impasto».15
Il vero è (e Luraschi non si dimentica di sottolinearlo) che gli Egiziani
avevano abbastanza dimestichezza con i fermenti dei cereali con cui preparavano
la birra, per non rendersi prima o poi conto che gli stessi princìpi potevano
essere applicati alla panificazione. Conosciuto il lievito, scoprirono che la
pasta lievitata non poteva esser cotta al fuoco vivo dei carboni, come avevano
sempre fatto per millenni con la stiacciata (simile per forma e contenuto alla
piadina romagnola). Né potevano ritornare all'antico metodo dell'essiccazione al
sole: non funzionava e non avevano voglia, gli Egiziani, di ridursi alla stregua
dei popoli che tuttora usano questi metodi arcaici. Fu perciò giocoforza che
inventassero un nuovo tipi di forno.
Eressero pertanto costruzioni cilindriche di mattoni fatti
di argilla del Nilo, costruzioni che si restringevano in alto a foggia di cono.
Una tramezza ne divideva l'interno. La parte inferiore aveva un'apertura più
larga per le forme di pane e per l'espulsione del gas. Quando stavano per fare
l'infornata, essi toglievano la pasta inacidita dal suo recipiente, la salavano,
la manipolavano interamente ancora una volta. Poi cospargevano di crusca il
recipiente per la cottura, così che la pasta non lo toccasse. Distribuivano la
pasta in fermentazione con una paletta, spingevano il recipiente nel forno,
chiudevano lo sportello.
Familiari e amici stavano intorno a guardare, in un'ammirazione reverenziale. In
quel forno stava crescendo una cosa che fino a quel punto era stato il prodotto
delle loro fatiche, ma che ora era affidato a forze soprannaturali sulle quali
essi non avevano controllo alcuno. Il padrone di casa ammoniva tutti a non
aprire il forno prematuramente. Ma nessuno obbediva, la camera miracolosa veniva
aperta di continuo e ispezionata per vedere se il pane era pronto. Gli amici
offrivano i loro consigli. Uno suggerì che era inutile che il lievito venisse
dall'aria; si poteva temer da parte un pezzo della pasta inacidita e servirsene
per «trapiantare» la lievitazione della pasta nuova. Così la pasta si sarebbe
inacidita più in fretta e più compiutamente. L'idea si dimostrò preziosa e da
quel giorno «la pasta inacidita per la lievitazione» fu custodita nelle case
egiziane come cosa sacra, come altri popoli conservavano il fuoco familiare. Non
osavano perdere il prezioso elemento principale della cottura al forno,
l'elemento che faceva «lievitare» il pane. 16
Fu dunque nell'antico Egitto che il lievito, simbolo di crescita e d'elevazione
spirituale, s'incontrò per la prima volta col forno «che è insieme utero e
vagina, calore e luce»,17 spazio magico del passaggio dal crudo al
cotto, dall'impasto acido all'alimento saporito. Ciò avvenne nel segno del pane,
sole in miniatura che da millenni illumina il rischioso sentiero che si snoda
tra la morte e la vita nell ' orizzonte mediterraneo.
Ma non finiscono qui i debiti dell'umanità nei confronti degli antichi Egizi. A
quanto pare, lo stesso setaccio fece la sua prima comparsa tra i pelati sudditi
del faraone: «l'invenzione venne loro attribuita da Plinio, che lo disse
composto con filamenti di papiro; d'uno staccio di giunchi ha provato
l'esistenza la tomba di Ti».18 E si avanza pure l'ipotesi che i primi
rudimentali mulini, risalenti a tremila anni prima di Cristo, siano stati
costruiti in Egitto.19 La «macchina rotante» cominciò invece ad
essere usata in epoca greco-romana. La maggior parte del pane si cuoceva nei
forni pubblici che ospitavano anche le birrerie. Ma il grano veniva molito in
famiglia. «Nelle case egiziane — assicura Edda Bresciani — si produceva la
farina con una tecnologia elementare: i chicchi preliminarmente frantumati in un
mortaio di pietra erano poi macinati con una pietra sopra una lastra litica
inclinata; la farina grossolana era poi passata al setaccio. Per ottenere una
farina più fine, si potevano tostare leggermente — o farli essiccare al sole — i
chicci dei cereali prima di macinarli […]. Ne derivava che, col pane, era sempre
mischiata della polvere minerale, la causa probabile dell'usura riscontrata sui
denti della maggior parte delle mummie egiziane esaminate».20
Di grano, d'orzo o di farro, i pani egiziani avevano diverse forme:
rotonda, ovoidale, triangolare, semicircolare. Quelli destinati agli dei
venivano modellati in appositi contenitori d'argilla di forma conica ed erano
talvolta cosparsi di cumino. I riti religiosi e magici venivano però onorati
anche con focacce antropomorfe o zoomorfe. In certe ricorrenze sulle focacce si
spalmava una sorta di «marmellata» di datteri e miele. Naturalmente, «nomi,
forme e ingredienti potevano cambiare col tempo, il gusto, la moda».21
Ciò non toglie, però, che fin dal suo esordio nella storia, il pane si
configurasse come alimento e segno, sostanza e forma, talismano magico e ultimo
bastione della speranza di sconfiggere la morte. Impasto polisemico pregnante di
valenze nutritive, terapeutiche ed apotropaiche, il pane era per gli Egiziani,
un formidabile strumento mediatico attraverso cui l'uomo comunicava con i suoi
simili e con i trapassati, gli dei, gli animali, le piante.
* * *
Dalla terra dei faraoni la civiltà del pane si diffuse in tutto il
bacino del Mediterraneo. In forme e tempi diversi, ovviamente. I primi
beneficiari dei progressi realizzati dagli Egiziani in materia di arte panaria
furono naturalmente i popoli vicini, con i quali intrattenevano rapporti
commerciali: i Fenici, i Greci e gli Ebrei. Poco invece sappiamo dei prestiti e
dei ristorni intercorsi con la cultura mesopotamica fino al secondo millennio
prima di Cristo, anche se sembra ormai certo che proprio la Mesopotamia fu la
culla dell ' agricoltura e, forse, la terra dell'invenzione dell '
aratro che tanta parte ha avuto nella storia dell ' umanità.
22
Sappiamo inoltre per certo che il codice di Hammurabi contemplava l'orzo
come moneta corrente negli scambi della vita quotidiana. «Se una taverniera —
recitava la legge hammurabica — non ha voluto ricevere dell'orzo come forma di
pagamento per la birra, ma dell'argento al prezzo più alto o se ha ridotto la
quantità della birra rispetto alla quantità d'orzo, questa taverniera, se
ritenuta colpevole, sarà gettata in acqua». E non potevano esservi dubbi sul
valore corrente dell'orzo: «Se una taverniera ha dato un orcio di birra a
credito, potrà rivendicare 50 litri di orzo al raccolto».23
L'esistenza e il consumo del pane è documento nei banchetti reali per i
festeggiamenti di Capodanno del 672 a.C.,24 vale a dire alcuni secoli
prima che il prezioso alimento fosse conosciuto dai Romani.
La civiltà fenicia, fiorita nella biblica «terra di Canaan», secondo Antonella
Spanò Giammellaro, «affonda le proprie radici nell'ampio panorama culturale
vicino-orientale, attingendone aspetti significativi, rielaborandone elementi,
ma continuandone fondamentalmente la tradizione anche nel rinnovato contesto del
I millennio a.C. ».25 Già all'inizio del secondo millennio si
facevano largo uso di orzo, grano, spelta e un particolare tipo di frumento (
Triticum monococcum ) a Ugarit, «città siriana distrutta dai Popoli del
Mare, della quale la regione fenicia era l'erede culturale più prossima». Si
calcola che il consumo giornaliero di cereali in questa città si aggirasse sui
500 grammi pro-capite.26 Che la produzione dei cereali del luogo
fosse insufficiente al nutrimento del popolo fenicio si evince dalla stessa
Bibbia. In particolare il profeta Ezechiele si rivolge alla distrutta Tiro con
queste parole: «Con te commerciavano Giuda e la terra d'Israele: ti davano il
frumento di Minnit, profumi, miele, olio e balsamo».27 Ma il più
grande fornitore di granaglie ai Fenici era l ' Egitto. Questi le consumavano
generalmente bollite, ma facevano anche uso di pappe, pane, focacce.28
Dalla condanna che fa Geremia nei riguardi dei culti stranieri apprendiamo
inoltre che i Fenici erano soliti offrire schiacciate alla dea Astarte:
I bambini raccolgono la legna e i padri accendono il fuoco, le donne preparano
la pasta e fanno schiacciate per la regina del cielo e si fanno libagioni alla
dea Astarte.
Più avanti si legge:
E se noi — soggiunsero le donne —- offriamo incenso o
libagioni alla regina del cielo, è forse senza il consenso dei nostri mariti che
le abbiamo fatto delle schiacciate simili alla sua immagine e le abbiamo offerto
libagioni? 29
Tutto lascia pensare che queste schiacciate simili all'immagine della dea
bugiarda, considerata «regina del cielo», fossero plasmate con pasta lievitata,
come qualsiasi altro pane antropomorfo, frutto della creatività femminile, ma
pur sempre «arte plastica effimera»,30 spreco, consumo d'eccezione,
volto a esorcizzare il pericolo di prolungati periodi di forzata astinenza
alimentare.
Il popolo ebraico fu conquistato alla civiltà del pane grazie ai suoi contatti
con gli Egiziani. E la Bibbia è sotto questo aspetto una formidabile fonte di
informazioni storiche. Gli Ebrei erano originariamente allevatori nomadi e
perciò, se integravano la loro alimentazione con i cereali, non consumavano
pane: certi lussi non erano per uomini del loro stampo, abituati agli spazi
delle praterie e a montare le tende ovunque trovassero buona erba per le loro
pecore.
In questo contesto cade il biblico incontro fra i fratelli di Giuseppe,
governatore d'Egitto, e il faraone, nel corso del quale, costretti a dichiarare
il loro mestiere, gli umili allevatori dissero impacciati: «I tuoi servi sono
pastori di pecore, come lo erano i nostri padri». Poi soggiunsero: «Siamo venuti
a stare in questo paese, perché non c'è pastura per i greggi che posseggono i
tuoi servi, e la carestia si è fatta molto grave nella terra di Canaan. Deh,
permetti che i tuoi servi dimorino nella contrada di Gessen». Furono
accontentati. E pose fine a centotrent'anni di «pellegrinaggio» Giacobbe, il
vecchio padre, che di lì a poco fu ricevuto pure dal faraone, grazie al figlio
governatore. «E Giuseppe assegnò il luogo di dimora a suo padre e ai suoi
fratelli e dette loro dei possessi nella terra d'Egitto, nella parte migliore
del paese, nella regione di Ramesse, come aveva ordinato Faraone. E Giuseppe
provvide suo padre e i suoi fratelli e tutta la casa di suo padre di vitto, in
proporzione della famiglia».31
Così gli Israeliti si misero a riparo di una grande carestia che nel
volger di pochi anni ebbe come conseguenza la nazionalizzazione del bestiame e
di tutte le terre d'Egitto, tranne quelle della casta sacerdotale: molti
allevatori del luogo divennero contadini e cominciarono a coltivare le terre del
faraone con l'estaglio di un quinto del prodotto.
Gli Israeliti divennero invece possessori della regione di Gessen, «e
proliferarono, e aumentarono assai». Divennero, come gli Egiziani, mangiatori di
pane.
E quando, dopo 430 anni di permanenza in terra egiziana (molti dei quali passati
in schiavitù), i figli d'Israele scapparono in fretta e furia con il bestiame,
per dirigersi, sotto la guida di Mosè, verso la terra promessa, temendo di dover
soffrire la fame, si caricarono sulle spalle le madie con il pane in pasta
«avvolte nei mantelli». Al momento opportuno «cossero la pasta che avevano
portato dall'Egitto, facendone delle schiacciate azzime, senza lievito, perché,
essendo scacciati dagli Egiziani, non avevan potuto indugiare, né prepararsi
delle provvigioni».32
Vagarono, com'è noto, quarant'anni nel deserto gli Israeliti, secondo il
racconto biblico; Mosè potè vedere la terra promessa solo da lontano. Ma, grazie
a Dio, nessuno patì la fame. Certo, non mancarono i disagi e i momenti di
scoramento. Ci fu, anzi, qualche iniziale borbottio contro Mosè e Aronne che lo
collaborava. «Oh! — si lamentarono gli Israeliti — fossimo periti per mano del
Signore, nel paese d'Egitto, quando sedevamo dinanzi alle pentole piene di
carne, quando mangiavamo pane a sazietà! Mentre voi ci avete condotti in questo
deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». 33
La moltitudine sopravvisse. La sera stessa «vennero su tante quaglie che
coprirono il campo». La cena fu quindi assicurata. Al sorger del nuovo mattino
il Signore fece piovere pane dal cielo. Sembrava rugiada, ma presto si trasformò
in «qualcosa di minuto, granelloso, sottile come la brina della terra». Era la
manna, mandata dal Signore. Somigliava «al seme di coriandolo, bianco di colore,
e il suo sapore come di focaccia fatta col miele». 34
Per quarant'anni il popolo eletto si alimentò con questo provvidenziale cibo,
sicuramente buono ma pur sempre surrogato del pane che in Egitto avevano
mangiato «a sazietà». Gran popolo, però, l'ebraico! Sopportò sofferenze
inenarrabili per amore di quella terra promessa che Mosè descriveva loro come
«paese di corsi d'acqua e di fonti, di acque zampillanti dalle profondità nelle
valli e sui monti; paese di frumento e d'orzo, di vigne, di fichi e melograni;
paese di olive e di miele; paese, nel quale non avrai il pane misurato, ma dove
non ti mancherà nulla; paese, in cui le pietre contengono ferro, e dai suoi
monti potrai estrarre il rame»: una terra, insomma, dove «mangerai, anzi ti
sazierai, e allora benedirai il Signore, Iddio tuo, per il buon paese che t'avrà
dato». 35
Una volta raggiunta la terra promessa, i figli d'Israele, «accampati in
Galgala, fecero la Pasqua al quattordici del mese, verso sera, nelle aride
pianure di Gerico. Il giorno dopo mangiarono dei prodotti della terra, pani
azzimi e grano tostato quello stesso giorno. Ma appena ebbero mangiati dei
frutti della terra, cessò la manna e non ne ebbero più, da quando incominciarono
a cibarsi dei prodotti della terra di Canaan di quello stesso anno».36
Il guaio fu, però, che i prodotti la terra non li dava spontaneamente:
bisognava versare sudore dalla fronte per guadagnarsi il pane. La cosa agli
Israeliti non andava proprio giù. Sapevano però che a questa regola non poteva
sottrarsi nessun figlio di Eva, perciò molti allevatori, si convertirono,
volenti o nolenti, in coltivatori, anche perché la legge di Mosè garantiva il
possesso della terra. Ma consideravano il loro nuovo mestiere come scelta
obbligata, maledizione divina, conseguente al peccato originale. Osservanti
delle leggi apprese da Mosè, gli Ebrei hanno sempre rispettato il culto che il
popolo deve a Dio, a cominciare dalla Pasqua e dal rito delle offerte che non
esclude i prodotti da forno. Dio aveva infatti detto: «Quando vorrai presentare
come oblazione qualcosa cotta al forno, offrirai focacce azzime di fior di
farina intrise con olio. Che se la tua oblazione è un'offerta preparata in
teglia, sia di fior di farina intrisa con olio, senza lievito. Dividi in pezzi e
spargivi sopra dell'olio: è un'offerta».37
Che motivo avevano gli Ebrei per non osservare questo rito? D'altronde se
l'Onnipotente non gradiva i cibi lievitati, anche loro «avevano un'avversione
per l'acidità, per il contaminante misterioso e il principio visibile della
dissoluzione». La sapevano davvero lunga i figli d'Israele… dopo aver accettato
— Dio solo sa come — la pena del lavoro sui campi. «Il sudore del volto
dell'uomo gocciolava sul pane quando veniva arato, seminato, raccolto,
trebbiato, macinato e mangiato. L'uomo tenesse dunque lontana l'acidità dal suo
Dio; era già sufficiente che egli stesso, l'uomo, avesse inacidito il pane col
proprio sudore».38
In ogni caso i lavori agricoli erano benedetti dal cielo e così gli
strumenti della panificazione domestica e i granai. La macina del grano e
dell'orzo, che le donne usavano in famiglia, era considerata di vitale
importanza, al punto da non potersi prendere in pegno «né la pietra inferiore ne
la pietra superiore».39 Ma esistevano mulini in molti villaggi,
stando al racconto biblico. Le panetterie pubbliche, a differenza dell'Egitto,
erano poche e concentrate nelle grandi città.
Ce n'era sicuramente una a Gerusalemme negli anni di nascita di Gesù. Il pane
quotidiano era generalmente rotondo o ovoidale e non troppo spesso, per
consentire ai consumatori di spezzarlo con le mani: comportamento rituale,
questo, che divenne proprio anche dei primi cristiani. Vale infine la pena di
ricordare che presso gli Ebrei, il consumo del pane era generalmente
accompagnato dalla carne o da altro companatico e dal vino, non già dalla birra
come in Egitto.
* * *
I Greci si nutrivano di cereali millenni prima della nascita di Cristo. E
praticavano l ' agricoltura, sia pure limitatamente a qualche area pianeggiante,
4500 anni prima della guerra di Troia, che la più aggiornata storiografia data
attorno al 1250 a.C.40 L ' orzo compare abbondantemente negli scritti
di Omero. Sappiamo dall' Iliade , per esempio, che i chicchi d'orzo
facevano parte dell ' apparato celebrativo dei sacrifici agli dei, che
solitamente si concludevano con grosse abbuffate.
E dopo che pregarono, gettarono i chicchi d'orzo,
trassero indietro le teste, sgozzarono [un toro], scuoiarono,
poi tagliaron le cosce, le avvolsero intorno al grasso,
ripiegandolo, sopra le primizie disposero,
queste sui rami secchi bruciarono,
ma i vesceri l'infilzarono; li tennero sul fuoco;
quando le cosce furono arse, mangiarono i visceri,
fecero i resti a pezzi e l'infilzarono su spiedi,
li arrostirono con cura, poi tutto tolsero.
Quando finirono l'opera ed ebbero pronto il banchetto,
banchettarono e cuore non sentì la mancanza di parte
abbondante.41
La farina compariva nei ricevimenti ufficiali.
E una bevanda preparò loro Ecamede riccioli belli
Che s'ebbe da Tènedo il vecchio, quando Achille la devastò
figlia del magnanimo Arsinoo; gli Achei per lui
La serbarono, ch'era in consiglio il miglior di tutti;
prima davanti a loro ella spinse una tavola
bella, piedi di smalto, lucida; poi sopra questa
un canestro di bronzo, e dentro cipolle, compagne del bere
e miele giallo; e la farina del sacro orzo accanto.
42
L' orzo era, dunque, ritenuto sacro in Grecia. Non era il solo cereale, però: si
faceva anche uso di avena, di spelta e di grano. E si mangiava pure il pane.
Pare anzi che fosse la regola, a sentire Omero o chiunque altro si celi sotto il
suo nome. In proposito sono illuminanti le parole con cui Ulisse descrive il
ciclope Polifemo.
Era un mostro gigante, e non somigliava
a un uomo mangiatore di pane, ma a picco selvoso
d ' eccelsi monti che appare isolato dagli altri. 43
Il ciclope era, insomma, un essere abominevole che nulla poteva avere in comune
con gli uomini che mangiavano il pane. La metafora «picco selvoso d'eccelsi
monti, che appare isolato dagli altri», in bocca ad Ulisse, quel volpone che,
pur di salvaguardare la sua natura umana, rifiuta il cibo degli dei offertogli
generosamente da Circe (con la quale pure finisce per condividere i piaceri del
talamo), non è funzionale solo a marcare la differenza tra l'uomo civile e il
barbaro: serve a denunciare che soltanto esseri mostruosi possono esistere fuori
dal consorzio dei mangiatori di pane. Ma era veramente a portata di tutti il
pane nella Grecia del secondo millennio a.C.? Sicuramente no, però c'era; e lo
testimonia anche Erotodo. Dal quale apprendiamo pure che la panificazione si
svolgeva in ambito domestico e che era incombenza tipicamente femminile. La
stessa moglie del re di Lebaiè, nell'alta Macedonia, panificava; e si faceva
anche carico del fabbisogno alimentare dei dipendenti dell'azienda di famiglia.
Uno di questi, Perdicca, umile guardiano di pecore, ogni volta che la padrona
faceva il pane, diventava «due volte più grasso». 44
Naturalmente quanto raccontato da Erotodo va preso per quello che è: una
leggenda, che, però, la dice lunga sul contributo portato dal gentil sesso dell
' antica Grecia alla costruzione della civiltà del pane . Con
la protezione di una potente divinità in gonnella, Demetra, sotto il cui nome si
adombra la Madre Terra, le donne micenee non solo si occupavano della
panificazione, ma avevano anche «un ruolo più importante degli uomini nella
mietitura, nella trebbiatura, nella conservazione e utilizzazione dei cereali».45
È una verità, questa, che può sconcertare chiunque si accosti al periodo
classico saltando disinvoltamente la storia di lunga durata dei primi secoli del
secondo millennio a.C., di quegli albori delle civiltà mediterranee, di cui
forse non abbiamo saputo leggere tutti i messaggi che potevano darci e che forse
avrebbero potuto aiutarci a risolvere tanti problemi dell'oggi. «Il passato — ci
ricorda Piero Bevilacqua — non è il retrobottega della casa lussuosa del
presente. Spesso esprime sfere di civiltà obliate, sentieri fertili di
conoscenza rimasti abbandonati».46
Uno di questi è il lavoro dei campi al femminile nella Grecia micenea. In
occasione della mietitura dell'orzo e del grano le famiglie contadine, uomini,
donne e bambini, si trasferivano nei campi con l'immancabile carico di «legacci
di paglia, forconi, falci e pietre per affilare». Il lavoro non iniziava mai
senza l'offerta di «una libagione, una preghiera e un canto al permaloso Spirito
delle spighe per averlo amico, poi le primizie della mietitura venivano dedicate
alla Dea del grano, Sitopotiya ». Il proprietario ricco «divideva il
lavoro tra più gruppi misti di uomini e donne: un gruppo falciava, un altro
ammassava in fasci eliminando la gramigna e la bardana, altri trasportavano i
covoni al bordo del campo, i bambini spigolavano». 47 Il falcetto,
depranon , consisteva in una lama di bronzo. Ma c'erano pure, nel XIII
secolo a.C., attrezzi più arcaici, per esempio, una falce fatta con «un corno di
cervo nel quale era inserita una fila di schegge di selci e di ossidiana». L'aia
era considerata un'invenzione di Deô, dea dell'orzo. La trebbiatura si faceva
con una tavola cosparsa di pietre taglienti, trascinata da un bue o da un asino.
«In piedi sulla tavola, un uomo o una donna girano instancabilmente sotto il
sole. Quando si ritiene che le spighe siano sufficientemente trebbiate, le
paglie vengono separate con il forcone e tutto il resto è ammonticchiato in una
piccola zona dell'aia. Non appena si metterà a soffiare un buon vento lo
spulatore con grandi colpi di pala, lancerà in alto nel cielo il miscuglio di
fuscelli e chicchi. Questi ultimi ricadranno al suolo; i fili di paglia, le
loppe e la polvere andranno a sparpagliarsi sui campi». 48
Una volta separato dalla paglia, il grano veniva lasciato sull'aia sacra
uno o due giorni e poi veniva diviso tra i ministri del culto, i re, le comunità
e le persone della fattoria. I braccianti erano pagati in natura: gli uomini
ricevevano circa un litro e mezzo di grano al giorno e qualche volta anche un
po' di fichi secchi. Il lavoro delle donne era retribuito un po' meno. Per altri
tipi di lavoro a Pilo le donne guadagnavano «un litro scarso di grano da farina
e circa un litro di fichi al giorno».49
La molitura del grano e dell'orzo avveniva in ambito domestico. Ogni
famiglia era provvista di una piccola macina litica che consentiva di ottenere
la farina e la semola. «Tutto questo lavoro manuale toccava alle donne, alle
quali era affidato anche il compito di preparare, una volta al mese o ogni tre
mesi, l'impasto per il pane, farlo lievitare, infine lavorarlo bene con le mani,
quindi infornarlo; con l'aggiunta di semi di sesamo, di papaveri, di finocchio o
di cumino si facevano i dolci. Talvolta questo lavoro veniva fatto in gruppo,
come si vede su certe terrecotte con figure». 50
I più noti prodotti da forno erano la galletta di avena, maza , e
il pane, artos . Ma si mangiava anche la farinata, poltos . La
farina si metteva sulla carne e si spolverava sulle bevande sacre. Ai novelli
sposi si gettavano, in segno di augurio, generose manciate di chicchi di grano.
51
L'alimentazione degli antichi Greci fu in tutti i tempi essenzialmente
cerealicola, anche se il grano prodotto in loco non fu mai sufficiente a
soddisfare la domanda. Si sopperiva importando granaglie dall'Egitto, da altri
paesi del Vicino Oriente e, in seguito, anche dalla Sicilia. Tuttavia il pane di
grano rimase a lungo privilegio dei ricchi e a questi stessi Solone impose
drastiche limitazioni. 52 Se ne cominciò a diffondere il consumo a
partire dal V secolo a.C., grazie ai rifornimenti che arrivavano dai Greci di
Sicilia. In questo stesso periodo progredì notevolmente l'arte panaria e furono,
tra l'altro, scoperti nuovi tipi di lievito, più sofisticati di quello appreso
dagli Egizi, e adatti ad esser conservati per un anno intero. Uno si preparava
impastando farina di miglio con mosto; un altro utilizzando mosto di tre giorni
e crusca di frumento, il cui impasto si lasciava essiccare al sole.
All'occorrenza, «se ne staccava un pezzo, si discioglieva in acqua calda e si
impastava con la farina». A riprova di questi progressi, basti ricordare che «il
primo trattato di panificazione fu compilato in Grecia da Crisippo di Thiana
verso il 240 a.C. ». 53
Secoli dopo Ateneo poteva annoverare nella sua opera, I sofisti a tavola
, circa cinquanta tipi di pane fabbricati in Grecia. E qualche altro ne
contava ben settantadue, includendo però nell'elenco anche alcuni dolci. Il pane
più comune, fatto probabilmente con farina ottenuta da una miscela di cereali
era l' amogee , ma c'erano pani di tutti i tipi: d'orzo, di spelta,
impastato col vino, col miele, con il latte, con un miscuglio d'ingredienti in
cui abbondavano il miele e il formaggio. C ' erano pani fatti con fior
di farina e pani di spelta non setacciata; pani per signori e pani destinati
agli schiavi. E pani che non erano pani, ma cialde, focacce, sfogliate, pastoni
vari cotti sui carboni e sotto la cenere, davanti alla bocca del forno e tra due
ferri. Azzimi e «pani d'Etiopia». 54 C'era persino la kollura
, che in Sicilia si fa tutt'oggi; e si chiama cuddura (con tutto
il rispetto per Aristofane e per gli altri dotti che ce ne hanno tramandato il
nome).
La rabbia è, però, che le antiche scritture non sempre ci spiegano cosa fossero
alcuni di questi prodotti. Era, per esempio, veramente pane quello d'Etiopia?
Chissà! Il nome indicava la provenienza geografica o il riferimento all'Etiopia
era dettato dal colore di questo (diciamo così) pane? È inutile chiederlo,
ormai. Ma il dubbio è più che giustificato, per chiunque abbia letto questo
brano:
In un immaginario dialogo fra i messaggeri del re di Persia
e lo stesso re degli etiopi, Erotodo traccia un vero e proprio confronto
culturale fra i due uomini (nella prospettiva greca, il popolo etiope si
collocava a metà strada fra «storia» e «mitologia»). Parte essenziale del
dialogo è comunque il confronto fra i due diversi sistemi alimentari; l'etiope
mostra una sorpresa mista a disgusto nell'apprendere che per i persiani base
dell'alimentazione è il pane di frumento, laddove la dieta degli etiopi non
prevede se non la consumazione di latte e carne bollita. Venuto poi a conoscenza
che la coltivazione del grano prevede (come è facile ricavare dal testo
erodoteo) la fertilizzazione con concimi animali, il re africano arriva a
concludere che i «mangiatori di pane» non sono in realtà altro che dei
«mangiatori di sterco». 55
È una vecchia storia: il cibo degli «altri» è di solito visto con sospetto, e
ritenuto indegno di essere persino accostato al «nostro», al punto di
considerarlo alla stregua della materia escrementizia. Questo tipo di
ragionamento, comune ai popoli di tutti i tempi, non era certo estraneo ai
Greci, né tanto meno agli Ateniesi, nelle cui mense affluivano i migliori
prodotti della terra mediterranea. Essi però difficilmente usavano un linguaggio
come quello che Erotodo attribuiva al re degli Etiopi: si limitavano a
considerare selvaggi, barbari, quanti non mangiavano il pane e non bevevano il
vino. Nella loro prospettiva la civiltà cominciava, insomma, con la conquista di
questi alimenti, ottenuti attraverso l'addomesticamento della natura. Il pane
non era più erba, il vino non sapeva più d'uva, grazie alla creatività dell'uomo
civile. Cibarsene poteva anche significare ingraziarsi in qualche modo gli dei.
Si tramanda, in proposito, che fu un evento soprannaturale a volgere a favore
degli Ateniesi l'esito della battaglia di Maratona (490 a.C.). «Un uomo
disarmato - sono parole di Jacob -, in apparenza contadino, in veste succinte,
comparve improvvisamente sul campo di battaglia. Un vomere d'aratro in pugno,
egli avanzò, danzando e facendo il movimento di chi mieta un campo di grano,
contro il potente esercito dei Persiani. Immediatamente dopo la vittoria egli
svanì». Chi fosse il misterioso eroe nessuno lo sapeva, prima che l'Oracolo di
Delfi desse questo responso: «Potete onorare il semidio Echetlios, emissario
della dea Demetra». Dieci anni dopo la stessa divinità fece vincere i Greci a
Salamina.56 Sorge però il sospetto che a determinare l'esito di
queste battaglie, più che la dea, possa esser stato il pane, che non mancava
certo ai Greci, a differenza dei Persiani, già a corto di vettovaglie.
* * *
L'arte panaria a Roma cominciò a svilupparsi nel II secolo a.C., negli anni cioè
delle guerre macedoniche. I più antichi Romani mangiavano cereali sotto forma di
chicchi crudi allo stato lattiginoso o arrostiti sul fuoco e minestre di fave,
lenticchie, piselli, fagioli e ortiche. Queste ultime erano ritenute
rinfrescanti.57 I cereali che cominciarono a coltivare dopo la
fondazione di Roma, indicati spesso genericamente come frumentum ,
erano forse quelli conosciuti nella vicina Etruria: spelta, orzo, miglio, farro.58
La prima farina cominciarono ad ottenerla pestando i chicchi in grossi mortai.
Questa operazione, cui erano addetti gli uomini, divenne a poco a poco una vera
attività professionale, i cui titolari presero il nome di pistori ( pistores
). La farina di farro veniva gettata sulle vittime immolate a Giove,
chiamato dai Romani Jupter . Ma era soprattutto l ' elemento
base della puls , una specie di polenta spesso insaporita da legumi e
verdure, il piatto simbolo dei più antichi Romani ( Quiriti ),
preparato dalle donne sotto l'occhio benevolo di Vesta, dea del sacro focolare.
Antica ghiottoneria era, inoltre, la placenta , ottenuta mescolando al
farro il formaggio fresco e il miele. In seguito sarebbero stati indicati con
questo nome i prodotti da forno con olio e sale.59 Si sarebbe invece
chiamata crustum la ciambella zuccherata, il pane fatale di cui parlava
Virgilio.60 Ma bisognava attendere la conclusione delle guerre
macedoniche perché la civiltà del pane raggiungesse a Roma certi livelli di
raffinatezza.
Tuttavia, molte cose erano cambiate fin dall'inizio dell'era repubblicana. I
cereali si erano cominciati a mangiare sotto forma di gallette e focacce non
lievitate cotte sul fuoco. Era sorta l ' Annona, pubblica istituzione
deputata alla regolamentazione dei prezzi dei prodotti più consumati, e se ne
era affidata la direzione ai cosiddetti edili, di estrazione plebea. Il culto di
Vesta si era un po' appannato, per lasciar meglio risplendere una nuova
divinità: Cerere, dea delle messi e personificazione di Demetra, accolta a furor
di popolo a Roma, su suggerimento della Sibilla, consultata in seguito ad una
grande carestia. Alla nuova dea la plebs romana aveva eretto un tempio
su uno dei colli dell'Urbe, che divenne meta di molti pellegrinaggi e occasione
di festeggiamenti, come mai prima se n'erano visti, a Roma. E un tempio a Giove
era stato costruito intorno al 365 a.C. sul Campidoglio. In quell'occasione il
padre degli dei era stato ribattezzato Jupter pistor , in segno di
riconoscenza per quanto egli aveva fatto durante l'assedio dei Galli, suggerendo
alle oche di starnazzare in modo da svegliare i Romani, i quali seppero
resistere agli assalitori gettando sul loro campo, tra le altre cose, focacce.61
E intanto i contatti con la Magna Grecia avevano fatto conoscere ai cittadini
dell'Urbe il grano siligo ( triticum ibernum ), da cui si estraeva una
farina bianchissima.
Era quindi naturale che, quando i legionari invasero la Macedonia, subissero
immediatamente il fascino del pane, il miglior cibo che gli dei avessero mai
mandato all'uomo. A mostrare il primo pane ai maggiorenti dell'Urbe furono, a
detta di Plinio il Vecchio, appunto i reduci dalla Macedonia. Nel 168 a.C., dopo
aver sconfitto definitivamente Perseo, re dei Macedoni, a Pidna, i Romani fecero
molti prigionieri che poi vendettero come schiavi a Roma. Quanti di essi erano
fornai vennero obbligati ad insegnare l'arte panaria dentro le botteghe dei
pistori. Da allora, per molti secoli, l'attività di produzione del pane si resse
grazie alla larga disponibilità di manodopera servile. E pare che gli schiavi
capaci di panificare fossero ritenuti merce di gran pregio, se è vero che per il
loro acquisto si pagavano «cifre molto elevate».62
Il lievito venne forse dalla Macedonia, assieme ai primi panettieri. Ma
presto si cominciò a preparare anche a Roma e, tra l'altro, con metodi
innovativi: per esempio con il mosto o con l'orzo germinato. Il modello di forno
introdotto dalla Grecia fu nel volger di poco tempo perfezionato, per adattarlo
alle esigenze di una «industria» di fondamentale importanza in una grande città
come Roma. La stessa molitura dei cereali non restò più la stessa: i vecchi
mortai furono a poco a poco accantonati per far posto alle macchine rotanti, a
trazione animale, umana o idraulica. Ma la più grande innovazione introdotta
nell'industria panaria dai Romani fu senza dubbio l'abbinamento del forno e del
mulino, che consentì una rapida ascesa del ceto dei pistori alla dignità di
soggetto politico, oltre che di potentato economico che poteva permettersi il
lusso di costruire monumenti funebri autocelebrativi (e perciò destinati a
divenire preziose testimonianze storiche e antropologiche), come la tomba del
fornaio Marco Virgilio Eurisace, che fa ancora bella mostra di sé fuori Porta
Maggiore a Roma.
Forni nell'Urbe ce n'erano trecento all ' epoca di Augusto. Ma già
verso il 147 a.C., i fornai-mugnai avevano costituito il Collegium pistorum
, la cui insegna era «un moggio a cono tronco che poggiava su un
treppiede».63 All ' epoca di Traiano un fornaio forestiero aveva la
possibilità di esser cooptato tra i Quiriti, ove fosse riuscito a preparare
cento moggi di pani al giorno per tre anni di seguito. La prospettiva era
allettante anche perché solo i Quiriti potevano essere eletti senatori. Ma
quanto costava questa prima arrampicata sociale? Da calcoli di Arnoldo Luraschi,
supportati dalle informazioni di Plinio, l'ambìto riconoscimento veniva a
costare al panificatore «la bella cifra di un milione settecentoqurantaduemila
pagnotte». 64
Ma a prescindere da ogni incentivazione, non pochi fornai sgobbavano più
dei loro schiavi. E non si vergognavano di portare il pane a casa dei clienti.
Anzi, dire di un fornaio « bonum panem fert », cioè porta pane buono,
significava ritenerlo degno di ricoprire una carica pubblica, cosa che accadeva
con maggior frequenza di quanto non si creda. I meriti di questa potente
categoria si misuravano in rapporto alle infornate giornaliere e alla bontà dei
loro prodotti. «Le forme del pane romano erano più artistiche e arbitrarie di
quelle degli Egiziani. I ricchi desideravano sempre qualcosa di nuovo.
Quando avevano tra gli invitati un poeta, ordinavano pani in
forma di lire; ai pranzi nuziali v'erano sempre pani dalla forma di due anelli
congiunti». 65 Ma neppure il pane quotidiano si presentava per tutti
lo stesso. A parte il sordidus , di sola crusca e perciò destinato ai
cani, e il madidus , che le matrone applicavano sul viso «per mantenere
la freschezza della carnagione», c'erano pani per tutti i gusti. Si passava
dall' ostrearius , che si mangiava con le ostriche, al pepsianus
, preparato per gli ammalati di stomaco; da una specie di tortiglione
panis ortopicius , al panis testuatus , forse rotondo e
sicuramente cotto in un recipiente di coccio; dal panis athletarum ,
grossolano e senza lievito, al panis aquaticus che galleggiava
nell'acqua. La forma e il contenuto variavano non solo in base all'estro del
panificatore, ma anche in funzione dello status del destinatario: il
senatore non mangiava il pane dell ' artigiano, né il patrizio quello
del plebeo. Non mancavano certo di professionalità, i panificatori romani. A
richiesta impastavano pani a mò di chiavi, dadi, trecce e quant'altro
desiderassero i clienti. Preparavano focacce con una grande varietà di
ingredienti: miele greco o siciliano, olio africano, uova, latte, formaggio,
semi di sesamo e di finocchio, mandorle, noci, pepe, foglie di alloro…
Ma non tutti mangiavano pane fatto dai fornai. Una pur modesta parte della
popolazione panificava a casa. Si chiamava panis autophirus il pane
casereccio integrale dei contadini. Più raffinato era, naturalmente, quello che
compariva nelle mense dei grossi proprietari terrieri. I quali, però, solevano
offrire ai clienti panem lapidosum , 66 pane che sapeva di
pietra, perché elargito da falsi benefattori che null'altro avevano a cuore se
non il prestigio personale e il desiderio di metter le grinfie sulla cosa
pubblica. Ma solo questo pane mangiò per secoli la plebe romana, anche quando
alle elargizioni private si sostituirono quelle dell'Annona.67
La madre di tutte le questioni politiche, etiche e religiose, nella Roma
repubblicana e imperiale, fu sempre quella del reperimento e della distribuzione
dei cereali. La plebe era spesso affamata. E la fame, i Romani lo sapevano bene,
costituiva una minaccia dalle conseguenze incalcolabili. Le stesse guerre
servili che insanguinarono per anni la Sicilia traevano origine dalla fame,
anche se non solo da essa. Fu sicuramente così per la prima (139-132 a.C.) che
iniziò sotto forma di rivolta di un gruppo di schiavi decisi a farla pagare a
Deamofilo, ricchissimo proprietario terriero di Enna. L'odiato uomo trattava con
particolare crudeltà i propri schiavi, marchiando a fuoco il corpo di questi
sventurati, che peraltro nel loro paese d'origine erano stati uomini liberi e
facevano esperienza della schiavitù perché caduti in prigionia. «Alcuni li
gettava, in ceppi, negli ergastoli, altri li utilizzava come pastori senza
fornire loro né cibo né adeguate vesti».68 Fu perciò ucciso e
decapitato dagli schiavi, il cui capo, Euno, subito dopo si proclamò re e prese
il nome di Antioco. Questo «re fanfarone» in pochi giorni fu a capo di seimila
uomini, «ai quali si unirono altri muniti di asce, scuri, fionde, falci, pali di
legno induriti col fuoco, spiedi da cuoco», e si impossessò di alcune città.
Come un vero monarca, «fece coniare a Enna delle monete di rame che portavano
impressa la testa di Demetra, una spiga di grano e la scritta abbreviata “Re
Antioco”».69
Insomma, come già a Maratona e a Salamina, Demetra, dea del pane, non
perse tempo a scendere a fianco di quanti combattevano quella guerra santa, che
durò sette anni suscitando nuove rivolte in Attica, a Delo e in altri luoghi.
Nella stessa Roma si registrò una congiura di centocinquanta schiavi, che però
non degenerò più di tanto. Alla fine ebbe la meglio l'esercito romano. I seguaci
di Euno si sgozzarono «l'un l'altro con le spade»; il loro capo chiuse
ingloriosamente i suoi giorni a Morgantina: «fu imprigionato, ed il suo corpo fu
divorato da una enorme quantità di pidocchi».70 Demetra non era più
con lui, forse perché non lo riteneva più degno della sua fiducia. O forse
perché era dovuta correre alla svelta a Roma per sostenere le riforme di Tiberio
Gracco.
Figlio di un noto console e già compagno di Scipione Emiliano nel momento finale
della distruzione di Cartagine (146 a.C.), Tiberio Gracco fu eletto tribuno
della plebe nel 133. Alla carica arrivò con un preciso programma politico volto
a correggere le grandi sperequazioni sociali esistenti all'indomani delle guerre
puniche: la classe dominante sperperava nell'Urbe i proventi di estesi
latifondi, acquisiti di solito per pubbliche benemerenze, e ingranditi a spese
dei piccoli proprietari che, non potendo competere con i latifondisti, erano
costretti a vendere le proprie terre a condizioni di strozzinaggio; il lavoro
agricolo salariato si faceva sempre più raro perché i padroni preferivano
utilizzare manodopera servile e lasciare molte tenute a pascolo; i ceti rurali
andavano ad infoltire le schiere della plebe urbana che, bene o male,
sopravviveva, se riusciva a racimolare qualche pugno di tutto il grano che
arriva dall'Egitto, dalla Sicilia, dai territori già cartaginesi e dalla Spagna.
Tiberio propose e fece approvare, non senza qualche espediente di dubbia
legalità, una legge che limitava l'estensione massima di ciascun latifondo a 500
iugeri, elevabili a 750 per i proprietari che avevano un figlio e a 1000 nel
caso di un maggior carico familiare. La parte eccedente doveva essere assegnata
in lotti ai contadini. Le spese per il finanziamento della legge dovevano esser
prese utilizzando le ricchezze lasciate da Attalo III di Pergamo in eredità al
popolo romano. Si istituì pertanto un triumvirato (di tipo familiare) presieduto
dallo stesso Tiberio, cui fu affidato l'incarico di attuare la legge. Ma la
riforma rimase una pia illusione di un tribuno generoso che presto fu
assassinato dai sicari del partito avverso.
Tiberio Gracco fu pianto dal popolo come un «missionario di Cerere». Al suo
funerale partecipò una folla immensa. Ma la legge non fu applicata, nemmeno
quando a ricoprire la carica di tribuno della plebe fu un altro Gracco, Gajo,
convinto assertore della necessità di portare avanti la riforma avviata dal
fratello Tiberio. Incontrò anche lui l'ostinata resistenza del patriziato
latifondista e se non fu assassinato dai soliti sicari, fu solo perché si fece
uccidere da un servo.
Assieme ai Gracchi morì anche la speranza di riformare in senso democratico lo
Stato. La proprietà di tutte le terre dello Stivale si concentrò nelle mani di
poche centinaia di famiglie aristocratiche, «le quali oziavano nelle loro ville
e lasciarono che gli schiavi lavorassero. Né Mario, né Cesare, entrambi del
partito popolare, riuscirono ad opporsi a questo malanno. Lo Stato abbandonò i
suoi coltivatori, e si piegò, sottomesso, dinanzi ai ricchi. La prima
conseguenza fu questa: il proprietario terriero italiano abbandonò gradualmente
la coltivazione del grano. Egli trovò più redditizio servirsi delle sue terre
come dei pascoli, perché bovini e pecore erano più redditizi che non il grano.
Il ricco, certo, vendeva grano. Ma questo grano non cresceva in Italia. Era
trasportato per nave, a tariffa bassissima, dai possedimenti d'oltremare».71
Alla plebe affamata dell ' Urbe, la classe dominante offrì sempre
assistenza alimentare, anziché lavoro. Il modello era paradossalmente quello
introdotto da Gajo Gracco, il quale si era fatto promotore della prima legge
frumentaria ( lex Sempronia ) che sanciva il diritto dei poveri ad
acquistare mensilmente dall'Annona un certo quantitativo di grano ad un prezzo
pari a meno della metà di quello di mercato. Ma Gajo forse concepiva questa
forma di protezione sociale come misura transitoria, mano protesa ai condannati
all ' ozio, cui il lavoro nei campi avrebbe restituito presto la
libertà. Invece la lex Sempronia finì per spianare la strada al più
sfacciato assistenzialismo che abbia mai conosciuto la storia dell '
umanità e la plebe romana perse gli ultimi scampoli di dignità.
A quella prima legge frumentaria ne seguirono altre. Nel 100 a.C. la lex
Apuleia di Lucio Apuleio Saturnino rese le frumentaziones
distribuzioni quasi gratuite, con gravi conseguenze per le casse dell'erario.
Abolite da Silla, esse furono ripristinate alla sua morte dalla legge del
tribuno Marco Emilio Lepido ( lex Aemilia ) che fissava in cinque moggi
la quantità di grano che si poteva acquistare a prezzo politico. La lex
Terentia Cassia di Caio Cassio Varo e Marco Terenzio Lucullo (73 a.C.)
ridimensionò il numero degli aventi diritto. Ma le maglie dell'assistenzialismo
tornarono ad allargarsi dieci anni dopo, in forza di un senato consulto promosso
da Catone. La lex Clodia rese addirittura gratuite le distribuzioni di
grano a tutti i poveri dell'Urbe, che ormai ammontavano ad alcune centinaia di
migliaia. Sicché Cesare, che pure era stato ispiratore di questa legge, si vide
costretto a ridurre a meno della metà il numero dei beneficiari e a cercare
soluzioni alternative, compresa quella di fare obbligo ai proprietari di
bestiame di «tenere alle proprie dipendenze almeno un terzo di uomini liberi».72
Con tutto ciò, quando Ottaviano divenne imperatore, la plebs
frumentaria che bivaccava a Roma era un esercito di circa 200 mila
questuanti, compresi i falsi bisognosi. Naturalmente Augusto cercò di far
pulizia. Ma dovette rinunciarvi. Anzi, alle frumentazioni ordinarie aggiunse
quelle straordinarie che comprendevano anche olio e vino.73 Il merito
più grande del primo imperatore romano fu, a giudizio di Svetonio, quello d '
esser riuscito «a conciliare gli interessi della popolazione della capitale con
quelli dei commercianti di grano».74 E poco contava se nei territori
periferici mercanti e funzionari romani si arricchissero a spese delle
popolazioni locali. La cosa più importante era che nella Capitale dell'impero
regnasse la quiete. «A questo provvedevano il prefetto dell'Annona e i suoi
fornai. Perché la distribuzione del sussidio avvenisse ordinatamente, si
introdusse la tessera frumentaria , che era di bronzo e recava il
ritratto dell'imperatore. Solo chi poteva presentare la tessera aveva diritto
alla distribuzione mensile del grano. Più tardi la distribuzione divenne
settimanale e le tessere furono di piombo».75
Nel III secolo d.C., anziché grano, si cominciò a distribuire pane: due
pagnotte al giorno! E la tessera diventò ereditaria; il pane dell'Annona
panis civilis ; quello distribuito al circo gradilis . Poi si
cominciò ad elargire lardo e carne suina, sia pure saltuariamente. E la plebe
prese ad adorare la dea Annona (parente stretta di Cerere) raffigurata nelle
monete come una ragazza con la cornucopia nella mano sinistra e un mazzo di
spighe nella destra. Venne considerato più divino l ' imperatore e
tutti gli auguravano lunga vita, e gli chiedevano pane. Pane, pane! Pane, lardo,
carne di maiale. Paneum et circenses76: ecco cosa volevano
quotidianamente centinaia di migliaia di oziosi, discendenti dei
soldati–contadini che avevano fatto grande Roma. E venivano accontentati. Nel
frattempo i barbari premevano ai confini, qualche provincia si staccava.
La divisione dell'Impero in Occidentale e Orientale diede un colpo letale alle
possibilità di approvvigionamento dell'Urbe, perché l'Egitto, che forniva un
terzo del grano consumato a Roma, fu aggregato a Bisanzio. E così, per la miope
politica agraria, aggravata dall'assistenzialismo più sfrenato, «Roma, che sotto
Augusto aveva un milione di abitanti, all'assedio di Alarico, nel 410, ne aveva
appena centocinquantamila. Questo salto non sono guerre, invasioni, epidemie che
lo spiegano, ma la mancanza di pane. E il pane s'inoltra per primo nelle ombre
medievali, bigio e umile come vogliono i tempi di penitenza».77
* * *
All'epoca della caduta dell‘Impero romano d'Occidente il Cristianesimo era già
religione di stato. Si era affermato, com'è noto, nonostante le atroci
persecuzioni degli imperatori. Tra i primi ad abbracciare la nuova fede erano
stati gli schiavi dei forni e molti degli assistiti dall'Annona, i quali erano
soliti riunirsi nelle catacombe. Il pane ebbe, dunque, un peso rilevante nel
processo di affermazione del nuovo credo. E fu determinante la stessa figura di
Gesù, uomo della storia, nato come tanti altri poveracci, in una grotta, in
mezzo al bue e all'asinello, animali che tiravano l'aratro. Per di più,
quell'uomo, figlio dello Spirito Santo, aveva scelto di nascere a Betlèm, il cui
nome in ebraico significa casa del pane. Ma questo forse non tutti i neofiti lo
sapevano.
Conoscevano invece il Pater noster , la bellissima preghiera che Gesù
aveva insegnato agli apostoli, nella quale si chiedeva a Dio: « panem
nostrum quotidianum da nobis hodie ». E non si trattava di un pane come
quello che l'imperatore faceva distribuire al circo, mentre i cristiani erano
dati in pasto ai leoni. No, davvero! Era pane impastato coll'amore, oltre che
con la farina e il lievito, a giudicare da quanto Gesù stesso disse agli
apostoli appena finì di recitare il Padre nostro : «Chi fra di voi, se
ha un amico, che, a mezzanotte, va da lui e gli dice: Amico, prestami tre pani,
perché mi è arrivato un amico da un viaggio e non ho cosa offrirgli da mangiare;
quello di dentro gli risponde, dicendo: Non mi dar noia, la porta è già chiusa,
i ragazzi sono a letto con me e ora non posso alzarmi e darteli. Io vi assicuro
che se anche non si volesse alzare e darglieli, perché amico, almeno per la sua
importunità, si alzerà e gliene darà quanti ne ha di bisogno. Ora vi dico:
Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Perché
chi chiede, riceve, chi cerca trova, a chi bussa, verrà aperto. Qual è fra di
voi quel padre che darà un sasso al figliolo che gli chiede del pane? O se
chiede un pesce, gli dia invece del pesce una serpe? O se chiede un uovo, gli
dia uno scorpione? Se voi, dunque, cattivi come siete, sapete dare ai vostri
figli cose buone, quanto più il Padre del cielo darà lo Spirito Santo a coloro
che glielo chiedono».78
E che cos'era stato il miracolo della moltiplicazione dei pani se non un
atto d'amore? Con cinque pani e due pesci Gesù aveva sfamato cinquemila persone,
e i suoi discepoli avevano pure riempito «dodici canestri dei pezzi dei cinque
pani d'orzo, avanzati a coloro che avevan mangiato».79 Ma quel
prodigio non si poteva ripetere tutti i giorni. Gesù l'aveva fatto per
instaurare un dialogo con gli abitanti della Galilea che stentavano a guadagnare
il loro pane. Bisognava perciò che partisse dal loro orizzonte culturale, dalle
loro aspettative più immediate, per risvegliarne dal profondo le aspirazioni
religiose, «contrapponendo al nutrimento materiale perituro un nutrimento
misterioso che resta, il nutrimento che verrà dato dal Figlio dell'Uomo»:80
il pane che si fa «corpo di Cristo» attraverso il sacramento dell'Eucaristia.
Ebbene, affermatosi come religione ufficiale dell'impero, il Cristianesimo non
tardò a sconfiggere le fedi ancestrali delle popolazioni germaniche e celtiche e
a presentarsi «quale effettivo erede del mondo romano e delle sue peculiari
tradizioni: il pane, il vino e l'olio, sintesi ideale del modello alimentare
mediterraneo, sono anche i prodotti che la liturgia cristiana ha reso sacri, gli
indispensabili strumenti del mestiere per gli assertori e i diffusori della
nuova fede. Ecco, dunque, nei racconti agiografici dell'alto Medioevo, vescovi e
abati intenti a seminare frumento e piantare vigne attorno alle chiese e ai
monasteri di nuova fondazione; ecco, più in generale, un'immagine forte e
vincente di questi prodotti. Le aristocrazie “barbariche” non tardarono ad
essere conquistate».81
Meno semplice fu la conquista delle tribù nomadi, che pure avevano da qualche
tempo imparato a coltivare modesti appezzamenti di terreno ad avena nelle
vicinanze dei pascoli, dai quali si spostavano dopo il raccolto. «La minestra
d'avena — assicura Jacob — non solo piaceva loro, ma diveniva una sorta di
simbolo nazionale e di pietra miliare».82 Non per questo, però,
accettarono a cuor leggero di abbandonare il vecchio mestiere di
mandriano-guerriero per dedicarsi all'agricoltura che, nella loro concezione
religiosa, era malvista dagli dei: Odino, dio del vento, Frigga, dea delle nubi,
e Thor, dio dei tuoni. Quando furono costretti a farlo, cercarono di trattare i
campi alla stregua di esseri viventi cui dovevano il massimo rispetto per non
provocare l'ira degli dei. «Talune tribù cavalcavano furiosamente sui campi, per
eccitare la tempesta e raccomandare i campi stessi alla buona grazia di Odino.
Poiché il cavallo era consacrato al dio del vento, si ponevano teschi di cavalli
ai quattro angoli del campo. Similmente, zanne e setole di porco venivano
commiste alla terra arando, giacchè i porci, animali che grufolano, avevano
maggior diritto alla terra che non l'uomo usurpatore. L'atto di arare riempiva i
Celti, i Germani e gli Slavi di un intenso timore. Per sfuggire all'ira della
terra, pretendevano che l'aratro non fosse una macchina, ma un animale dotato di
volontà propria. Perciò gli Anglo–sassoni chiamavano l'aratro “naso di porco”, i
Lettoni “orso” e i Renani “lupo” — come per addossare all'animale la colpa di
aver scavato la terra. […] Il legno di aratro che fosse stato colpito dal
fulmine non poteva essere usato per fare un nuovo aratro, perché così facendo,
si sarebbe attirata l'ira di Thor-Donar sul nuovo aratro. Era bene bruciare un
po' di peli del bue aggiogato all'aratro per proteggerlo dal fulmine. Alla prima
aratura, si collocava un uovo davanti all'aratro: se l'uovo si rompeva, voleva
dire che la terra era disposta ad accettare il sacrificio».83 Una
serie di credenze, tabù e riti magici accompagnavano inoltre la semina, la
scerbatura, la mietitura, la trebbiatura, la cottura del pane e, persino,
l'attraversamento dei seminati.
Il Cristianesimo si sforzò di spiegare a questi popoli che coltivare la terra
era un diritto dell'uomo, anzi un dovere, considerato che solo così si poteva
ottenere il pane, quel dono di Dio che, nell'offerta eucaristica, si faceva
suggello dell'alleanza del Creatore con l'umanità. Riuscì a farsi capire, ma non
senza una fatica immane. Cominciarono a circolare forse proprio nel basso
Medioevo alcune delle fiabe raccolte tra il 1812 e il 1822 dai
fratelli Grimm. Una vuole che la trebbia sia caduta dal cielo e rivaluta anche
il ruolo della zappa come strumento salvifico.84 Un'altra racconta
che prima le spighe erano molto più pesanti e che, per l'uso improprio fattone
da una donna, il Signore si arrabbiò e disse: «D'ora in poi lo stelo del grano
non porterà più spighe: gli uomini non son più degni del dono divino«. Ma,
provando pietà per quanti lo pregavano, ritirò la maledizione. «E così in cima
allo stelo restò la spiga, come cresce ancora oggi».85
Ma, a legger bene questi ed altri brevi racconti d'ispirazione cristiana,
non è difficile rintracciarvi retaggi d'origine pre-agraria. In ogni caso i
popoli nordeuropei in epoca preindustriale hanno sempre accompagnato l'esercizio
dell'agricoltura con precisi riti magici che, seppur non privi di varianti
locali, si prefiggevano di «influenzare il corso della natura direttamente,
tramite un'empatia fisica o una somiglianza tra il rito e l'effetto che il rito
stesso dovrebbe produrre. Visti sotto quest'ottica, i rituali tradizionali della
primavera e della mietitura nelle nostre campagne europee meritano di esser
classificati come primitivi. […] E lo dimostra la consuetudine di gettare nel
fiume la Madre del grano [ultimo covone mietuto] per ottenere pioggia e rugiada
per le messi; di appesantire la Vecchia [altro modo di chiamare l'ultimo
covone], onde ottenere un altrettanto pesante raccolto per l'anno successivo; di
spargere il grano dell'anno precedente fra le nuove piantine, in primavera; di
dare l'ultimo covone in pasto al bestiame perché prosperi e si riproduca».86
Oltre che portatori di una cultura ancestrale, nel Medioevo i popoli che
erano vissuti nei boschi, nutrendosi di carne, latte e pappe di ghiande, erano
paurosamente ignoranti in materia di agricoltura al punto da consumare
spensieratamente anche la farina dell' ergot , segala cornuta dai grani
neri e il sapore dolce, che già nel primo secolo dell'era cristiana Columella
aveva indicato come sostanza velenosa. Il risultato fu che all'inizio
dell'autunno del 943 nella città di Lemoges si verificò un'improvvisa epidemia
che durò un anno e provocò la morte di quarantamila persone. La colpa fu data
alla «Vecchiaccia del grano», contro la quale sembrava che non ci fosse nulla da
fare. La gente, disperata, non faceva che pregare la Madonna, Cristo e i Santi,
da Santa Genoveffa a Santa Geltrude, da San Martino a San Marziale: ma
l'ergotismo continuava a mietere vittime. «La chiesa, generosamente, eresse
ospedali per coloro che erano stati colpiti dalla malattia. I malati vennero
affidati alla custodia di S. Antonio e la malattia fu conosciuta col nome “Fuoco
di S. Antonio”. Ma al tempo stesso la Chiesa metteva al bando, come magia, le
ricerche mediche. Soltanto nel tardo Rinascimento i medici — Lonicer nel 1582 e
Kaspar Schwenckfeld nel 1600 — scoprirono la vera causa della terribile malattia
e cominciarono a combatterla».87
I popoli nordici avevano, fra l'altro, una particolare fobia per i mulini
idraulici ereditati dai Romani: trovavano sin troppo blasfemo imprigionare gli
spiriti dei liberi corsi d'acqua per metterli a servizio di quegli ingranaggi
diabolici che frantumavano i chicchi, con noncuranza per l'offesa arrecata alla
Madre del grano. In particolare i Germani erano convinti che il fragore delle
macine fosse un chiaro segno di poteri magici, come quelli espressi dai tuoni
mandati dal dio Thor– Donar. Per combattere questa credenza, la Chiesa mise i
mugnai sotto il protettorato di Santa Venera, originaria dalla Svizzera, «dove
gli abitanti avevano collocato nei loro mulini dei piccoli idoli ai quali
facevano offerte. Venera gettò gli idoli nei corsi d'acqua dei mulini. Da prima
vi furono inondazioni, ma poi i mulini macinarono meglio che mai. Quando essa
volle andarsene dalla valle boscosa dove questo era accaduto, i demoni
fracassarono il suo carro e la sua barca. Allor la Santa prese una macina, la
collocò nell'acqua, e la macchina galleggiò e Venera se ne andò sopra di essa
fuor della valle… Per questa impresa, ancor oggi la dipingono con una macina da
mulino sotto il braccio…». Era appunto questa la prerogativa principale di Santa
Venera: render le macine più leggere e più umano il lavoro del mugnaio. Ma ha
ragione Jacob, (del quale abbiamo preso in prestito le parole): «La leggenda
dimostra quanto abbiano faticato i religiosi per convertire i vecchi terrori
pagani in credenze cristiane». 88
La loro fatica fu però ampiamente ripagata. I popoli germanici e celtici
non solo si servirono dei mulini ad acqua, ma inventarono nuove macine
sfruttando l'energia eolica, quel soffio di Odino di cui prima avevano paura e
che oramai, grazie a San Martino (protettore dei contadini) alleviava la fatica
di quanti spagliavano la segala e il grano nell'aia. I mulini a vento furono
infatti inventati in Olanda e da lì si diffusero nel resto d'Europa, a
cominciare dalle regioni settentrionali. Nel 1295 le pale di uno di questi
mulini cominciarono a girare a Parigi, sulla collina di Montmatre, già teatro
del martirio di San Dionigi, di San Rustico e di sant'Eleuterio, e dal 1096
possesso dell'Abazia dei Benedettini. Nel volger di pochi anni sulla stessa
collina furono eretti altri mulini a vento, non ultimo dei quali quello fatto
costruire dai frati benedettini, il cosiddetto «Staccia-fino», vero modello di
perfezione tecnica e muto testimone di tanti avvenimenti della storia di
Francia: «dalla sua piattaforma — raccontano le cronache — Etienne Marcel,
prevosto dei mercanti di Parigi, sorvegliò nel 1358 i movimenti delle bande
mercenarie borgognone e progettò di dare Parigi a Carlo il Cattivo. E il vecchio
mulino assistette impassibile all'assalto tentato su Parigi dalla Pulzella
d'Orleans al mulino de La Chapelle».89
A promuovere la diffusione dei mulini a vento nelle varie regioni germaniche
furono pure gli ordini monastici, scontrandosi talvolta con arroganti signorotti
che si ritenevano padroni persino dei fenomeni atmosferici. Basti ricordare che
nel 1391, quando i monaci del monastero di Sant'Agostino nell'Over Yssel
decisero di costruire un mulino a vento, «il conte feudatario del luogo si
oppose perché il vento passava sopra il suo territorio. Ma il vescovo di
Utrecht, fortemente adirato, affermò che il vento dell'intera provincia
apparteneva a lui soltanto e i monaci costruirono il loro mulino».90
Non c'era invece bácolo pastorale che potesse far recedere dalle proprie
decisioni il conte della Frisia, il quale impose ai mugnai una tassa annua per
l'uso del vento. Nulla poteva però arrestare la penetrazione dei mulini a vento
nei territori germanici, anche se, specialmente all'inizio, era persino
difficile trovare qualcuno del luogo capace di costruirli. Prova ne sia che
ancora nel 1393 la città di Spira dovette rivolgersi a un tecnico olandese, per
dotarsi del suo primo mulino a vento.
Ma già a quell'epoca il pane era l'alimento principale anche dei popoli
nordeuropei. Era pane nero, di segala, o di farina di cereali associata a
fagioli, piselli, vecce, castagne, ghiande e talvolta anche felci: «pane
selvaggio», direbbe Piero Camporesi, cibo per masse affamate, che grazie alla
Chiesa si erano da poco accostate alla civiltà del pane. Oltre che per la
panificazione, la farina di cereali serviva a preparare anche semolini e zuppe
che non dovevano esser troppo diverse dalla kasha russa, a base di
segala e di grano saraceno. «In Inghilterra si faceva molto uso dell'avena,
anche se essa è ricordata solo in tre manoscritti. Negli altri paesi i cuochi
ricorrevano all'avena solo per preparare un piatto per i malati chiamato in
genere Avenast , Avenat o Avenà».91
Nell'Europa medievale, specialmente negli anni di carestia, si chiamava
pane qualsiasi cosa che ne facesse in qualche maniera le veci. Nei musei della
Svezia tuttora si conservano pani fatti quasi esclusivamente con corteccia di
pino e paglia. In Danimarca, in Turingia e in Ungheria i contadini
«spilluzzicavano pagliuzze dai loro tetti e li mettevano al forno». Nella Svezia
settentrionale s'infornavano pani di farina e sangue di renna. In Germania e
nell'Estonia il sangue era di maiale, la farina d'orzo o di segala; ma le
«focacce di sangue» non erano certo più appettitose delle svedesi. Men che meno
lo erano i pani fatti di «terra con un po' di farina» che si preparavano in
Francia nell'843. Nulla di nuovo, però: «Lo storico Martin von Troppan afferma
che in Ungheria la gente mangiava la terra argillosa di una certa collina, e
così visse per lungo tempo».92 Ma c'era di peggio nel Medioevo. Il
cannibalismo non era pratica esclusiva di selvagge tribù africane o della
«barbarie slava»; ancora nel 1314 in Inghilterra c'erano persone che «per fame,
mangiavano segretamente la carne dei loro figli, e ladri in prigione i quali
facevano a pezzi i carcerati novelli e ne mangiavano le carni ancora fumanti».93
Tanta mostruosità non si era registrata né all'epoca dell'impero romano né
al tempo delle invasioni barbariche, quando non pochi allevatori del nord
abbandonarono il nomadismo per dedicarsi al lavoro dei campi e fondare libere
comunità stanziali. Il primo caso di cannibalismo documentato in Francia risale
al 793, ossia all'epoca di Carlo Magno, quando alcune comunità rurali erano
state assoggettate ai signori feudali e questi, oltre ad accaparrarsi la maggior
parte dei prodotti della terra, imponevano l'uso dei propri mulini e dei propri
forni a quanti erano soggetti alla loro giurisdizione: nessuno poteva macinare
il grano con le mole domestiche; a nessuno era consentita la libera
panificazione. Sicché la fame, che imperversava anche in tempi normali, quando
c'era la carestia trasformava in bestie feroci persino le creature
Il feudalesimo fu poi diffuso in tutto il Sacro Romano Impero. E purtroppo la
Chiesa non mosse un dito per impedirlo. Anzi, non pochi alti prelati divennero
Vescovi Conti e non si comportarono meglio degli altri feudatari. Il che, se
consentì alla Chiesa di procurarsi nuove risorse da destinare alla missione
evangelica, finì per creare una grave frattura con larghi strati di popolazione
cristiana che non riuscivano a saziarsi di pane. Ma secoli prima che ciò
avvenisse, si consumò lo scisma d'Oriente che vide nascere la Chiesa
greco–ortodossa. Motivo non secondario della dolorosa rottura fu la
contrapposizione «tra il pane azzimo della tradizione ebraica (richiamato
dall'ostia del rituale eucaristico romano) e il »vero» pane fermentato del
Cristianesimo primitivo, orgogliosamente conservato nel rituale ortodosso quale
simbolo di una diversa identità religiosa».94
I nodi per la scelta fatta a favore del feudalismo vennero al pettine nel
Trecento. Stanchi dell'oppressione congiunta dei lord, dei vescovi, del sovrano
e dei ricchi, nel 1381 i contadini inglesi insorsero per affermare il diritto di
«impastare la pasta del pane per proprio conto». Occuparono Londra, penetrarono
fin dentro la camera da letto della regina. Assaltarono le prigioni e fecero
uscire i carcerarti, uno dei quali era un prete di buona favella, John Ball, che
da decenni «tuonava contro i vescovi per il loro amore degli ornamenti e per la
loro vita non cristiana. Il contadino — egli dichiarava — è il legittimo
governante e il legittimo predicatore perché nessun'altra classe considera e
adora Dio come il contadino». Tornato in libertà, parlò ai sessantamila che
l'avevano liberato, improvvisando due celebri versi:
Quando Adamo vangava ed Eva filava,
chi era allora gentiluomo?
Tra i primi a cadere nelle mani dei ribelli furono lord Hale, consigliere dello
Scacchiere e l'arcivescovo di Canterbury. Vennero entrambi giustiziati quattro
giorni dopo. Inesperto com'era, il carnefice «colpì otto volte con la scure il
collo dell'arcivescovo prima che la testa fosse spiccata dal busto». L'indomani
il capo dei rivoltosi chiese ed ottenne d'incontrarsi a tu per tu con il re.
Dopo avergli stretto calorosamente la mano, avanzò le richieste: «l'abolizione
dei possedimenti della Chiesa e della Corona e uguaglianza sociale generale.
Nessuno avrebbe dovuto possedere più di qualsiasi altro». Quel momento di gloria
gli fu fatale: due cavalieri della guardia regia lo passarono a fil di spada. La
rivolta continuò ancora per un mese sotto la guida del grintoso prete liberato
dalla prigione, il quale non smise di ricordare ai vescovi: «Sta scritto in San
Matteo, Non possedere né oro né argento ». Il 15 luglio 1381 finì sulla
forca. Il suo cadavere fu squartato.95
Ispiratore di questa rivolta fu ritenuto John Wycliffe, docente di
teologia all'Università di Oxford e teorico della «povertà evangelica». Inviso
perciò alla corona, e al nuovo arcivescovo di Canterbury, nel 1382 fu costretto
a lasciare la cattedra universitaria. Morì due anni dopo. Ma le sue teorie
furono oggetto di dibattito ancora per molti anni. E non solo in Inghilterra. Su
ispirazione dei teologi tedeschi e sollecitazione del papa Innocenzo VII,
l'Università di Praga prese posizione contro le tesi del riformatore inglese. Ma
si udirono anche voci fuori dal coro, espresse dalla «nazione ceca», capeggiata
da Stanislao di Znojmo. Il prete Kunes de Trebovel non esitò a schierarsi contro
la «Chiesa che tutto divora» sostenendo che i contadini non erano «né gli
schiavi né gli usufruttuari della terra», ma i veri padroni, «i benedetti
padroni del pane, del sudore, dei quali tutti viviamo!».96
Il più strenuo difensore delle idee di Wycliffe (e in definitiva dei
diritti dei mir , le comunità di villaggio) divenne, dopo un periodo
d'incertezza, un altro prete, figlio di contadini, Jan di Usinetz (1369-1415),
detto Giovanni Huss. Predicatore di eccezionale eloquenza, alunno di Stanislao
di Znojmo, Huss venne ai ferri corti col papato quando si oppose, mettendo nero
su bianco ( Questio de indulgentiis – Contra bullam papae ),
alla promulgazione delle indulgenze. Per questo dovette stare lontano da Praga
per oltre un anno. Munito di salvacondotto imperiale, il coraggioso teologo andò
a sostenere le proprie tesi al Concilio di Costanza, col risultato però di farsi
condannare al rogo. Il popolo boemo si sollevò: un'armata di contadini marciò in
tutte le direzioni, battendosi per sedici anni contro l'esercito dell'imperatore
all'insegna dell'indipendenza nazionale e della libertà religiosa. E il
movimento si fece pure sentire in Ungheria e ai confini della Germania, prima di
esser sconfitto in Boemia.
Molto più drammatico fu ciò che avvenne in Germania dieci anni dopo. Il pomo
della discordia fu anche qui il pane, impastato, come già in Inghilterra e in
Boemia, con il lievito della religione. Ma non fu ininfluente neppure quanto
avvenne in materia giuridica sul finire dl Trecento. Fino ad allora il regime
feudale non aveva ancora cancellato l'antico diritto comunitario. Ma un brutto
giorno l'imperatore ebbe l'infelice idea d'introdurre in Germania il diritto
romano che, in buona sostanza, trasformò i contadini semiliberi in servi della
gleba, legati per legge al fondo che coltivano. Fu un colpo grave, questo, per i
benemeriti produttori del pane.
Il fuoco della rivolta cominciò a covare sotto la cenere di un'apparente
normalità sociale il 31 ottobre 1517, quando il monaco agostiniano Martin
Lutero, professore di Sacra Scrittura, affisse alla porta della chiesa di
Ognissanti di Wittemberg le 95 tesi della sua Disputatio circularis pro
declaratione virtutis indulgentiarum con cui prendeva nettamente posizione
contro il bando delle indulgenze lanciato dal papa Leone X per raccogliere fondi
da destinare alla fabbrica di San Pietro, a Roma. Lo scontro religioso si
concluse, com'è noto, con la scomunica di Lutero e la nascita della Chiesa
protestante. Il monaco ribelle fu salutato dalle masse contadine come
liberatore, perché la sua denuncia non era diretta solo contro il clero
cattolico, ma aveva di mira anche la decadenza morale e la corruzione dei
feudatari, almeno all'inizio della Riforma «evangelica». Ma quando, incoraggiati
dalle calde prediche di colti luterani, i contadini insorsero contro
l'aristocrazia feudale per reclamare, nel più ossequioso rispetto dei principi
biblici, l'abolizione della servitù e della decima sul grano, un'equa tassazione
del reddito, la libertà dei villaggi di eleggere i loro pastori, il ripristino
delle norme di diritto comune e degli usi civici, Lutero fece un vergognoso
voltafaccia a quanti avevano osato ribellarsi. Pubblicò un libello il cui titolo
tedesco, Wider die ränberischen und mörderischen Rotten der Bauren
(Contro le orde brigantesche e assassine dei contadini), con cui invocava la
ferocia dei nobili contro i ribelli: «È il tempo della spada; non della pietà.
Così le autorità vadano innanzi e con tranquilla coscienza abbattano e uccidano
finché rimanga fiato nei loro corpi».
In rotta con Lutero (anche per ragioni squisitamente teologiche), un altro
teologo protestante, Thomas Münzer, intanto guidava l'esercito dei contadini
contro le truppe imperiali. Lo scontro si estese ad ogni angolo della Germania,
dalla Svevia alla Baviera, all'Alsazia, alla Foresta Nera. Il sangue contadino
rese rosse le acque del Meno, del Neckar, del Danubio, del Reno… Fu una
carneficina spaventosa: montagne di cadaveri, migliaia di teste staccate, mani
mozzate, ferri roventi conficcati negli occhi. Lo stesso Münzer fu decapitato.
Si calcola che non furono meno di centotrentamila i contadini massacrati. Uno di
essi urlò in faccia al boia: «Ahimè! Ora debbo morire e in tutta la mia vita non
mi sono saziato di pane due volte!».97
Non bastassero queste dolorose lacerazioni, i cristiani della Riforma si
divisero al loro interno a proposito del pane eucaristico, pane della vita. Lo
strappo si consumò all'inizio del mese di ottobre 1529 nel castello di Marburgo,
dove si riunirono i principali esponenti delle chiese «evangeliche», su invito
del langravio Filippo d'Assia (1509-1557), il quale intendeva formare, con
l'entusiasmo tipico dei ventenni, una grande lega politico-religiosa (estesa
dalla Germania occidentale alla Svizzera, alla Danimarca, alla Francia) da
contrapporre all'imperatore e al papa. Dopo tre giorni di accesa discussione, i
convenuti riuscirono a mettersi d'accordo su tutti i punti controversi, fuorché
su come intendere la frase pronunziata da Gesù nel distribuire il pane
benedetto, appena spezzato, agli apostoli: «Questo è il mi corpo». Mentre Lutero
la interpretava in senso letterale, il teologo ginevrino Zwigli vi attribuiva un
significato simbolico. Il pane per lui restava sempre pane; Cristo non poteva
trasformarsi in pane e, men che meno, in tanti pani contemporaneamente.
E così i protestanti svizzeri presero definitivamente le distanze dal
luteranesimo e Lutero si alienò le simpatie di moltissimi dei suoi stessi
seguaci. Tant'è vero che nel 1530 a redigere la Confessione augustana ,
cioè il documento ufficiale cui aderirono tutte le chiese luterane, comprese
quelle della Scandinavia, non fu lui, ma Filippo Schwarz Erde che da qualche
tempo aveva mutato il nome in Melantone. La confessione di Zwigli attecchì nei
cantoni tedeschi della Svizzera. In quelli latini, nei Paesi Bassi, in Scozia e
in alcune regioni della Francia si radicò invece la dottrina di Calvino,
anch'egli simbolista e già seguace di Zwigli. Si dichiarò simbolista anche il
clero inglese. Ma in Inghilterra la Riforma si attuò nel 1534 per motivi
politici: Enrico VIII staccò la chiesa anglicana dal papato per metterla alle
dirette dipendenze della corona.
* * *
Nei diversi regni, principati e repubbliche dell'Europa dei primi tempi dell'età
moderna furono emanate leggi sorprendentemente analoghe volte ad assicurare il
pane ai poveri. Il modello cui tutti i governi (da quello del cattolicissimo
imperatore Carlo V a quello di Edoardo VI d'Inghilterra, capo della Chiesa
anglicana) s'ispirarono, era espresso da un noto proverbio biblico: «Chi fa
incetta di frumento, è maledetto dal popolo, ma chi vende il suo grano ha la
benedizione sul capo».98 È vero, non fu invenzione cinquecentesca
questa politica: i precedenti più lontani si trovavano nell'Egitto dei faraoni e
nella riforma di Gajo Gracco; i più recenti nelle scelte dei primi stati
nazionali e delle signorie italiane dell'alto Medioevo. Non c'è dubbio, però,
che le norme emanate nel Cinquecento tenessero presente quanto era successo di
recente nell'Europa centro – settentrionale.
Naturalmente era più facile legiferare laddove si potevano aggiornare o
ripescare vecchie leggi. In questa situazione si trovavano la Francia e
l'Inghilterra. In Francia la corporazione dei fornai aveva ottenuto una precisa
regolamentazione giuridica già nel 1228, per volere del re Luigi IX il Santo. A
dirigerla era il panettiere del re, scelto nell'ambito della migliore
aristocrazia: portava la divisa e armi gentilizie, «bastone ornato d'argento» e
partecipava a tutte le grandi cerimonie di corte. Il suo più stretto
collaboratore era il luogotenente, che alternava il mestiere di fornaio con
quello di regio ispettore: «faceva le visite di controllo ai padroni dei forni,
teneva la contabilità delle multe e presiedeva all'elezione di certe cariche
corporative, come quella di giurati. Erano, questi, dei probiviri, che traevano
il loro nome dall'aver giurato sull'Evangelo: dovevano vigilare che la
corruzione e la frode non entrassero nel sodalizio. Quattro di essi
accompagnavano il luogotenente nel passare in rivista le panetterie. Se qualche
pane sembrava piccolo rispetto al peso che doveva avere, fissavano una multa al
fornaio, ma se troppi erano i pani che mostravano questo difetto e la
fraudolenza era chiara, tutto il pane che si trovava nella bottega in quel
giorno veniva dato a Dio: era un devoto modo di dimostrare che quel pane veniva
gratuitamente distribuito ai poveri».99 Ma queste norme non furono
sufficienti per evitare la rivolta antifeudale scoppiata nel vivo della guerra
dei cent'anni nella regione dell'Oise, la famosa Jacquerie (1358) che,
com'è noto, si concluse con circa 20000 contadini massacrati da Carlo II il
Malvagio, re di Navarra. Servivano però ad affermare il primato nel mondo del
pane prodotto a Parigi. Primato effimero, tra l'altro, visto che in seguito
venne considerato migliore il pane viennese. I successivi adattamenti delle
vecchie norme emanate al tempo di Luigi il Santo avrebbero mostrato i loro
limiti fino alla fine del XVIII secolo.
Né si dimostrarono all'altezza della situazione le norme emanate a metà dl
Cinquecento da Edoardo VI d'Inghilterra. Nel suo regno il precedente più antico
era l'editto del re Giovanni (1199-1216) che fissava il prezzo del pane in
armonia con quello del grano. Questa legge era stata però sostituita dalla
Assisa panis (1266) di Enrico III, che fissava il profitto netto del
fornaio al 13%. Ciò non impedì alla categoria di guadagnare di più, corrompendo
le autorità, «per poter cuocere a loro piacere pani deficienti di peso, più
leggeri di un terzo o di un quarto del normale»,100 né alla
corporazione dei fornai e dei panettieri londinesi di ottenere ritocchi alle
spettanze dei panificatori calcolando «non solo i costi di legna, candele,
uomini a giornata e apprendisti, sale, lievito e il costo del mugnaio, ma anche
i costi del panettiere, di un gatto e anche di una moglie».101 Ma
tutto questo non impediva le frodi, tant'è che spesso si vedevano «fornai
infedeli» alla gogna, o trascinati a furor di popolo per le strade con pani
irregolari appesi al collo. Meno che meno poteva appagare la fame di pane e di
giustizia dei contadini che si rivoltarono nel 1381.
Sicché quando Edoardo VI decise di riformare la legislazione sul pane, dettò
precise norme contro l'accaparramento, l'incetta e il monopolio dei cereali. I
commercianti «non potevano comprare — e gli agricoltori vendere — su campione;
non potevano acquistare raccolti non mietuti, né comprare per vendere nuovamente
(nel giro di tre mesi) a scopi di profitto nello stesso mercato e in mercati
vicini, e così via […] I mugnai e, ancor di più, i fornai venivano considerati
persone al servizio della comunità, che lavoravano non per il profitto ma in
cambio di un'equa ricompensa. Molti poveri avevano la possibilità di comprare il
grano direttamente al mercato oppure di ottenerlo come integrazione del salario
o con la spigolatura, di portarlo a macinare al mulino, dove il mugnaio poteva
esigere la tradizionale molenda, e poi di cuocersi il loro pane. A Londra e
nelle altre città dove tutto questo da lungo tempo aveva cessato di essere la
regola, la ricompensa e il profitto del fornaio erano calcolati precisamente
dalle ordinanze del Tribunale del pane, per mezzo delle quali sia il prezzo che
il peso dellapagnotta venivano stabiliti in base al prezzo del frumento».102
La nuova normativa si mostrò nel complesso valida per circa un secolo,
anche perché ad essa si affiancarono misure di emergenze per i periodi di
carestia codificate nel Book of Orders nel quale veniva detto a chiare
lettere che, «se i proprietari di grano e gli altri detentori di commestibili…
non osserveranno di loro spontanea volontà questi Ordini», Sua Maestà provvederà
a «dare l'ordine di imporre prezzi ragionevoli».
Nel periodo elisabettiano i magistrati dovevano sorvegliare i
mercati locali per verificare fino a che punto fossero in grado di «rifornire e
servire» i consumatori «e specialmente la povera gente». Essi erano tra l'altro
autorizzati a recarsi «alle case dei fittavoli e degli altri agricoltori… ed
esaminare quante riserve e provviste di grano essi hanno conservato e se si
tratta di grano trebbiato o non trebbiato…».
Agli albori della rivoluzione industriale questa legislazione cominciò a
mostrare le prime crepe perché il Book of Orders era caduto in disuso
nel corso delle guerre civili, gli agricoltori e i commercianti avevano trovato
il sistema di eludere la legge, i mugnai e i fornai non avevano mai smesso di
rubare. A risentire maggiormente della situazione erano gli abitanti delle città
e gli operai delle miniere, i quali ogni volta che si avvertivano i primi
sintomi di una crisi alimentare non esitavano di organizzare manifestazioni di
protesta. L'Inghilterra del XVIII secolo fu spesso teatro di tumulti e di
sollevazioni popolari volti ad imporre il prezzo politico del pane.103
Gli assalti ai mulini, ai forni, ai magazzini e ai carri di grano durarono per
più di un secolo. E ci furono momenti particolarmente drammatici negli anni
1740, 1756, 1766, 1795 e 1800, di cui furono i principali protagonisti i
minatori di carbone e di stagno, i tessitori e i calzettai e le loro donne.
Spesso erano anzi le donne che davano il la ai tumulti. Nel 1693 fu un grosso
numero di donne a recarsi nel mercato di Northampton «con i coltelli infilati
nelle cinture per imporre il loro prezzo del grano». Nel 1737 a Poole, nel
Dorset, furono pure le donne a cercare d'impedire l'esportazione di frumento.
«La massa — scrisse un cronista dell'epoca — è rappresentata da un gran numero
di donne e di uomini che le appoggiano e giurano che se qualcuno si permette di
molestare una delle donne nelle loro azioni essi formeranno grandi squadre e
distruggeranno sia le navi che i carichi». Nel 1740, a Stockton, nel Durhan, la
protesta per il pane fu diretta da «una signora con un bastone e un corno».
A partire dai primi anni dell'Ottocento le manifestazioni divennero più
strutturate e di tipo quasi sindacale. La direzione passò agli uomini. «A tutti
i braccianti — si poteva infatti leggere in un avviso scritto distribuito nel
1801 in Cornovaglia — e gli operai della catena di Stratton che vogliono salvare
le loro mogli e i loro bambini dalla terribile minaccia di MORIRE DI FAME per
colpa degli agricoltori crudeli e rapaci… Riuniamoci tutti immediatamente e
muoviamo in formidabile schiera sulle abitazioni dei rapaci agricoltori, per
costringerli a vendere il grano al mercato, a un prezzo più giusto e
ragionevole…».104 Un paio di decenni dopo la lotta contro il carovita
poteva contare sulle Trade Unions di Robert Owen, sui mulini cooperativi e sulle
cooperative di consumo.
Le leggi di Carlo V rassomigliavano per certi aspetti a quelle di Edoardo VI
d'Inghilterra. E si dimostrarono altrettanto inadatte a fronteggiare la
situazione, anche perché subito dopo Filippo II istituì l'odiata tassa sul
macinato che un politico siciliano nel 1848 avrebbe definito «flagello di tre
secoli, servitù del pane».105 Ma, a prescindere da questo balzello,
nel Cinquecento e nel Seicento nei territori sottoposti alla Spagna le crisi di
sussistenza vennero più volte drammaticamente all'ordine del giorno e non
c'erano leggi che potessero evitarle. L'assalto al forno delle grucce in cui fu
coinvolto l'umile protagonista dei Promessi Sposi può anche essere
un'invenzione di quel «tal Sandro, autor di un romanzetto», ma non c'è dubbio
che cose del genere avvennero davvero in molte città amministrate da governatori
e gran cancellieri spagnoli. E non furono nemmeno le più drammatiche.
In Francia la mancanza di pane fu il motore della sola grande rivoluzione che
abbia cambiato veramente il mondo. «Nei mesi che precedettero la presa della
Bastiglia, i popolani di Parigi avevano ricominciato a salutarsi col saluto
della Jacquerie, saluto proibito: »Le pain se lève…» Quale pane? Non v'era pane,
nel 1789. V'era soltanto la visione del pane. La mano del destino era ancora una
volta all'opera e lavorava la pasta e apriva il grande forno…».106
L'assalto alla Bastiglia del 14 Luglio fu deciso perché si era da tempo sparsa
la voce che dentro la solida fortezza potessero trovarsi le prove di un
fantomatico «complotto del grano», di cui si sarebbero resi responsabili alcuni
famigerati personaggi, amici del re. E il problema del pane costituì la
preoccupazione maggiore dei rivoluzionari francesi fino al 1795. Su proposta di
Danton nel 1793 a Parigi si cominciò a fabbricare il pain d'egalité :
un pane integrale di pessima qualità per tutti, poveri e ricchi. Venne
introdotta la tessera del pane e, come nella Roma imperiale, nel 1795 si fecero
distribuzioni gratuite a tutti i parigini: una libbra e mezza al giorno ai
lavoratori agricoli e ai capi famiglia, una libra a tutti gli altri. Eppure nel
1794 il raccolto era stato quanto mai scarso e in quel momento la Francia stava
facendo i conti con una grave inflazione che fece salire alle stelle il prezzo
del grano. Saint-Just proponeva che tutti i francesi tra i venticinque e i
cinquant'anni d'età fossero obbligati a lavorare nei campi. «E gli uomini del
Terrore proprio nell'anno dei raccolti mancati e della fame organizzarono una
festa di ringraziamento per il raccolto. Roberspierre, vestito d'azzurro, con
un'espressione rigida e astratta sul volto, percorse lentamente, a piedi, le vie
di Parigi dietro una coppia di buoi “dedicata alla dea dell'agricoltura”. Recava
in mano un mazzo di spighe di frumento e di papaveri; ma era ovvio che si
trattava di un mazzo artificiale».107
Naturalmente la fame non si poteva combattere solo con plateali
messinscene: di lì a poco le donne di Parigi scaricarono la loro rabbia contro
gli esponenti più in vista della rivoluzione. Aggredirono l'avvocato Boissy
d'Anglas, ministro del grano, e per poco non lo linciarono. Uccisero un deputato
e gli staccarono la testa con un coltello da cucina. E avrebbero assassinato
tutti i membri della Convenzione se non si fossero barricati nella sede delle
riunioni, in attesa che venisse a salvarli un reggimento di soldati. La
rivoluzione francese vinse, grazie a Dio; e l'ancien régime scomparve
dalla Francia. Il pane dell'uguaglianza divenne bianco, di solo grano, in
Francia e in tutti i paesi conquistati da Napoleone. I regimi feudali
cominciarono a cadere, uno dopo l'altro, come pere mature.
Nel frattempo l'arte panaria aveva mosso i primi passi nel faticoso percorso
della produzione industriale. Le prime impastatrici meccaniche erano state
inventate dal fornaio parigino Salignac nel 1760, da Cousin nel 1761 e da
Keferstein nel 1785. Nel 1810 un altro fornaio di Parigi, Lambert, progettò la
prima impastatrice pratica, che tuttavia presentava ancora l'inconveniente di
fare avvenire l'impasto in ambiente chiuso. Nel 1847 fu applicata con successo
l'impastatrice Boland che presentava il pregio di non lacerare la pasta e di
arearla. Ulteriori perfezionamenti furono portati alle macchine inventate da
Rolland (1850) e da Deliry (1867). E intanto s'introduceva l'uso delle prime
polveri di panificazione (1838), facendo tesoro degli studi di Whiting e di
Liebig. Le scoperte di Luis Pasteur, attraverso la fermentazione alcolica,
introdussero l'uso del lievito compresso. I più recenti progressi della tecnica
collocano il settore in una dimensione industriale di tutto rispetto.
Tuttavia, in molte zone rurali d'Europa la panificazione domestica era ancora
largamente diffusa fino a una ventina d'anni fa. E i forni contadini hanno
ripreso a funzionare nelle aziende agrituristiche, con vera gioia degli ospiti
che possono così scoprire il vero sapore del pane.
Fa rabbia però sapere che l'uomo non abbia ancora sconfitto la fame. «Era
passato da poco mezzogiorno — racconta Mohamed Choukri — quando scesi al porto.
Camminavo scalzo, ero stanco. Avevo bevuto un bicchier d'acqua. Passai davanti
al chiosco dove si vendeva purea di fave. Avevo una fame da matti. Il sole
picchiava duro. Fame, caldo: raccolsi da terra un pesce morto. Puzzava. Faceva
schifo. Lo sciacquai e cominciai a masticarlo anche se era orribile. Era marcio
[…]. Un pescatore seduto su una barca stava mangiando una galletta. Lo guardai,
lo fissai come fossi stato io a mangiare quella roba. Continuavo a guardarlo
nella speranza che mi buttasse qualche avanzo. Gli auguravo in cuor mio di
masticare lo stesso pesce marcio di prima. Lui guardava da un'altra parte, verso
la città vecchia. “E butta, butta un pezzo di pane”, mi dicevo fra me e me. Il
pescatore fu chiamato da un suo compagno, se né andò gettando la galletta in
mare […] mi levai camicia e pantaloni e mi gettai in acqua».108
Cose da terzo mondo, si obietterà. Ma anche nei paesi industrializzati c'è
gente che fa letteralmente la fame. Certo, l' Opera del pane di Sant'Antonio
si è da tempo trasformata in pia istituzione che distribuisce denaro. Ma
esistono ancora barboni che mangiano minestra e pane nei refettori della carità.
Ed è ancora viva la memoria della fame di massa dell'ultima emergenza bellica. A
Roma, nell'autunno 1943, era un'avventura rimediare il necessario per togliersi
la fame. «Si faceva la fila per ore e ore per comprare le cipolle, i broccoli,
la zucca. Alla chiusura del mercato c'erano donne che frugavano tra le
immondizie dei cassonetti per trovare foglie e torsoli da cucinare. L'unica
distribuzione sicura erano 100 grammi di pane a testa, ogni giorno, un pane
fatto di segale ceci e segatura. Si trovava però la farina di castagne con cui
si faceva una specie di castagnaccio. Si masticavano a lungo, lentamente, le
castagne secche, le “mosciarelle”, o le carrube. La fame aveva un sapore
dolciastro».109
Solo a Roma? Non c'era fame a Milano, a Torino, a Napoli? A Palermo il 19
ottobre 1944 esplose una manifestazione popolare che sarebbe passata alla storia
come «la rivolta del pane». Ed esplosero pure le mitragliate della fanteria:
trenta morti, centoquarantanove feriti.110
Tutti affamati! Come gli altri palermitani in giro per i paesi
dell'entroterra in cerca di qualche canigghiottu , pane duro, nero, di
sola crusca.
Drammi di questo tipo difficilmente possono esser compresi dalle nuove
generazioni. Per loro il pane è solo uno degli alimenti e nemmeno dei più
importanti. Sconoscono persino il concetto di companatico, per il semplice
motivo che spesso consumano il «secondo» senza pane. Ma ancora nei primi anni
cinquanta i cereali concorrevano per circa il 60% alla formazione delle
disponibilità caloriche perché il pane e la pasta erano gli alimenti
relativamente a più buon prezzo: nel 1952 mille calorie assunte sotto forma di
pane costavano soltanto 35 lire che salivano a 45 nel caso della pasta, 70 per
le patate e ben 700 lire nelle carni più pregiate. Era ancora «la scarsa
capacità d'acquisto della popolazione a spiegare le caratteristiche della nostra
dieta, l'uso e il non uso di certi prodotti base».
111 Poi, l'esodo
rurale, il progressivo miglioramento delle condizioni economiche dei ceti meno
abbienti, l'aggressione pubblicitaria e l'affermazione del modello consumistico
cambiarono le abitudini e gli stili di vita delle popolazioni d'Occidente. E
posero fine alla panificazione domestica.
Note
1 Cfr. H. E. Jacob, I seimila anni del pane. Storia sacra e
storia profana, trad. it., Milano 1951, p.28.
2 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia , Palermo 1976,
p.7.
3 Cfr. M. Montanari, Modelli alimentari e modelli di civiltà
, in AA. VV. Storia dell'alimentazione , a cura di J. - L. Flandrin e
M. Montanari, Roma - Bari 1999, p.76.
4 Cfr. H. E. Jacob, I seimila anni del pane cit., p.5.
5 Cfr. A. Luraschi, Il pane e la sua storia , Torino 1953,
p.21.
6 Cfr. Jean Chevalier Alain Gheerbrant, op. cit. , v
ol. I, p.467.
7 Cfr. F. Braudel, Il Mediterraneo – Lo spazio e la storia gli
uomini e la tradizione , trad. it., Milano 1995, p.56.
8 Cfr. Ibidem .
9 Cfr. A. Luraschi, Il pane cit., p.15.
10 Cfr. Ibidem , pp.13-14.
11 Cfr. Erotodo, Storie , II, 2, 2-5.
12 Cfr. E. Besciani, La cultura alimentare degli egiziani antichi
in AA. VV. Storia dell'alimentazione , cit. p.39.
13 Cfr. Erotodo, Storie, II, 92, 2.
14 Cfr. H. E. Jacob, op. cit., pp.46-47.
15 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.32.
16 Cfr. H. E. Jacob, op. cit. ,pp.42-43.
17 Cfr. P. Camporesi, La terra e la luna. Dai riti agrari ai fast
food: un viaggio nel ventre dell'Italia , Cernusco s/N. (Milano) 1995,
p.28.
18 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.29.
19 Cfr. E. Messineo, L'uomo e il pane in Sicilia
Agricola , marzo/aprile 1995, p. 14.
20 Cfr. E. Bresciani, La cultura alimentare , cit. p.39.
21 Cfr. Ibidem, p.40.
22 Cfr. E. Messineo, L'uomo e il pane cit.; cfr. inoltre G.
Oddo, L'aratro a chiodo racconta che… in Agricoltura moderna ,
1999, n. 2-3, pp. 20-22.
23 Cfr. F. Joannès, La funzione sociale del banchetto nelle prime
civiltà in AA. VV. Storia dell'alimentazione cit., p.29.
24 Cfr Ibidem , p.33.
25 Cfr. A. Spanò Giammellaro, Fenici e punici , in AA. VV.
Storia dell'alimentazione cit., p.57
26 Cfr. Ibidem , p.57.
27 Cfr. Ez 27,17.
28 Cfr. A. Spanò Giammellaro, op. cit. , p.57,
29 Cfr. Gr 7,18 e 44,19.
30 Cfr. A. Cirese, Per lo studio dell'arte plastica effimera in
Sardegna in AA. VV. Plastica effimera in Sardegna , Cagliari 1973,
pp. 7-10.
31 Cfr. Gn 47, 3-12.
32 Cfr. Es 12, 34-40.
33 Cfr. Es 16, 3.
34 Cfr. Es 16, 4-31.
35 Cfr. Dt 8, 7-10.
36 Cfr. Gs 5, 10-12.
37 Cfr. Lv 2, 2-3.
38 Cfr. H. E. Jacob, op. cit. , pp.60-64.
39 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.51.
40 Cfr. P. Faure, La vita quotidiana in Grecia ai tempi della
guerra di Troia (1250 a.C.), trad. it., Ariccia(Roma) 1999, p.41.
41 Cfr. Omero, Iliade , II, 421-431.
42 Cfr. Ibidem , XI, 624-631.
43 Cfr. Omero, Odissea , IX, 190-192.
44 Cfr. Erotodo, Storie, VIII, 137.
45 Cfr. P. Faure, La vita quotidiana cit., p.228.
46 Cfr. P. Bevilacqua, L'altra modernità del Sud. Presentazione
a M. Alcaro, Sull'identità meidionale. Forme di una cultura
mediterranea , Torino 1999, p.XIII
47 Cfr. P. Faure, La vita quotidiana cit. ,
pp.228-229.
48 Cfr. Ibidem , pp.229-230.
49 Cfr. Ibidem , p.97.
50 Cfr. Ibidem , p.230.
51 Cfr. Ibidem , p.239.
52 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.62.
53 Cfr. Ibidem , p.61.
54 Cfr. Ibidem , p.63-64.
55 Cfr. O. Longo, Il cibo degli altri in AA. VV., Storia
dell'Alimentazione cit., p.204.
56 Cfr. H. E. Jacob, op. cit., pp.72-74.
57 Cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia , XXII, 15.
58 Cfr. G. Sassatelli, L'alimentazione degli Etruschi in AA.
VV., Storia dell'alimentazione c it., pp.136-137.
59 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.70.
60 Cfr. Virgilio, Eneide , 7, 115.
61 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.77.
62 Cfr. Ibidem , p.79.
63 Cfr. Ibidem , p.93.
64 Cfr. Ibidem , p.94.
65 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.104.
66 Cfr. Seneca, De beneficiis , 2, 7.
67 Cfr. P. Garnsey, Le ragioni della politica: approvvigionamento
alimentare e consenso politico nel mondo antico , trad. it., in AA. VV.
Storia dell'alimentazione , cit., pp. 178-190.
68 Cfr. L. Canfora (a cura di) Diodoro Siculo. La rivolta degli
schiavi in Sicilia , Palermo 1990, pp. 17-18.
69 Cfr. M. I. Finley, Storia della Sicilia antica , trad.
it., Roma-Bari 1979, p. 161.
70 Cfr. L. Canfora, op. cit., pp.26-27.
71 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.110.
72 Cfr. A. Luraschi, op. cit ., p.89.
73 Cfr. Ibidem , p.110.
74 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., P.117.
75 Cfr. Ibidem.
76 Cfr. Giovenale, 10, 81.
77 Cfr. A. Luraschi, op. cit ., p.111.
78 Cfr. Lc 11, 5-13.
79 Cfr. Gv 6, 9-13.
80 Cfr. A. Feullet, Il pane di vita. Riflessioni eucaristiche per
l'anno giubilare, Milano 1999, p.24.
81 Cfr. M. Montanari, Romani, barbari, cristiani. Agli albori
della cultura alimentare europea in AA.VV., Storia dell'alimentazione
cit., p.214.
82 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.148.
83 Cfr. Ibidem , p.154.
84 Cfr. La spiga in B. Dal Lago Veneri (a cura di) Grimm
Tutte le fiabe , trad. it., Roma 1983, pp.520-521.
85 Cfr. La trebbia venuta dal cielo , Ibidem,
p.349.
86 Cfr. F. G. Frazer, Il ramo d'oro. Studio sulla magia e la
religione , trad. it, Roma 1992, pp.466-467.
87 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.162.
88 Cfr. Ibidem , p.165.
89 Cfr. A. Luraschi, op. cit ., p.159.
90 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.167.
91 Cfr. T. Scully, L'arte della cucina nel Medioevo, trad.
it., Torino 1997, p.43.
92 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., pp.191-192.
93 Cfr. Ibidem , pp.193-194.
94 Cfr. A. Montanari, Modelli alimentari e identità culturali in
AA.VV., Storia dell'alimentazione , cit., p.246.
95 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., pp.223-226.
96 Cfr. Ibidem , p.226.
97 Cfr. Ibidem , p.232.
98 Cfr. Pro 11,26.
99 A. Luraschi, op. cit ., pp.152-154.
100 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.182.
101 Cfr. T. Scully, op. cit. , p.42.
102 Cfr. E. P. Thompson, L'economia morale delle classi popolari
inglesi nel secolo XVIII in Id. Società patrizia-Cultura plebea,
trad. it, Torino 1981, pp.64-65.
103 Cfr. Ibidem , pp.57-136.
104Cfr. Ibidem , pp.98-99.
105 Cfr. Archivio di Stato – Palermo, Real Segreteria-Polizia,
Manifesto del ministro delle finanze Filippo Cordova, 15 Ottobre 1848,
b.652 bis, doc. 7401. Cfr. inoltre G. Oddo, Lo sviluppo incompiuto Storia di
un comune agricolo della Sicilia occidentale, Palermo 1986, p. 101.
106 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.315.
107 Cfr. Ibidem , p.324.
108 Cfr. M. Choukri, Il pane nudo, trad. it., Roma-Napoli
1988, pp. 92-93.
109 Cfr. M. Mafai, Pane nero , Milano 1989, p.167.
110 Cfr. Luttuosi incidenti a Palermo durante una manifestazione
contro il carovita in Giornale di Sicilia, 20 Ottobre 1944.
111 Cfr. S. D ' Andrea, “ Problema sociale e umano la nutrizione
” in Rivista Agricoltura , n.3, 1952, p.52.